“Rispondere al cambiamento è più importante di seguire un piano”. Uno dei motti dell’Agile Manifesto sembra essere ormai sempre più ricorrente in ogni strategia organizzativa e di business di questi ultimi anni.
Ormai avvezzi alla descrizione dei contesti VUCA (Volatili, Incerti, Complessi, Adattivi), abbiamo compreso che ogni funzione organizzativa ha bisogno di ripensare i propri schemi e il proprio mindset in funzione di risultati sempre così difficili anche da rappresentare e fissare nel tempo.
Proprio come il marketing e le vendite, anche i dipartimenti delle risorse umane devono fornire risultati.
Le metriche possono essere diverse, ma uno scopo comune riguarda i dipendenti che devono comunque essere coinvolti nel proprio lavoro e nella cultura aziendale. Ed esistono innumerevoli statistiche che dimostrano come i dipendenti coinvolti forniscano risultati migliori e profitti più elevati.
Oggi l’HR Management comprende sempre di più che le metriche utilizzate per identificare il coinvolgimento e il “benessere” stanno cambiando.
Il Growth Hacking nelle Risorse Umane
Un trend metodologico che si è diffuso nel panorama del marketing e che ha ridefinito molti approcci di business delle aziende si chiama growth hacking.
Sean Ellis è considerato l’ideatore di questo termine, che traduce l’idea di diventare degli “hacker della crescita” nell’ambito del business, ed è una strategia che si basa fortemente su creatività, strumenti social e dati.
Invece di adottare ciecamente un metodo anziché un altro, il growth hacking supporta ogni mossa strategica con dati e test attraverso la lettura delle interazioni di un ambiente social e non solo.
Al centro della strategia c’è l’importanza di apprendere continuamente da prove ed errori, dalla raccolta di dati, dal monitoraggio dei risultati e dagli approfondimenti connessi ad ogni criticità.
Per quanto negli anni si sia trasformato in un una keyword nel mondo del marketing digitale, pochi in realtà riescono a capire cosa significhi veramente e come funzioni. Sta di fatto che la trasformazione digitale del business e della concorrenza è avvenuta in tutti i campi, e tutte le imprese, ma soprattutto le startup hanno avuto necessità di dimostrare che le proprie idee fossero vantaggiose per ottenere dei finanziamenti utili a potersi sviluppare.
Qualcuno ha già provato a dire che il growth hacking è un mix di istinto, analisi e sviluppo estremamente nitido per ottenere i risultati ideali nel più breve tempo possibile.
L’adozione di questo approccio è stato abbastanza fisiologico per le ex-startup della Silicon Valley, poiché negli anni hanno dovuto stimolare l’engagement, massimizzare la brand awareness, vendere i propri prodotti/servizi e mostrare chiaramente i risultati ai propri venture capitalist.
Se è vero che la crescita organizzativa guida e sostiene i fatturati delle imprese, coinvolge gli azionisti, è vero anche che aiuta a coinvolgere i lavoratori per migliorare. Perché allora non portare l’hacking della crescita anche negli approcci e nelle metodologie HR?
L’Hacking della Crescita
Spesso capita che un trend come il growth hacking sia frainteso.
Fare “hacking della crescita” non significa solo aumentare le vendite o aumentare gli utenti su una piattaforma, ma significa accettare il fatto che le aziende siano organismi complessi, che maturano nel tempo, e che il punto di partenza per crescere sia l’essere consapevoli della fase in cui ci si trova.
Uno degli scopi del growth hacking è senz’altro raggiungere rapidamente dei risultati attesi con costi minimi, ma bisogna considerarlo come più simile a un mindset che a uno strumento pubblicitario o di e-commerce.
Come ricorda Luca Barboni in “Il manuale ninja del web marketing” la parola growth hacking è composta in primis da “growth” che significa crescita. E la crescita corrisponde alla misurazione di un andamento: in un confronto tra un prima e un dopo infatti, senza attenzione ai dati, non potremmo avere nessuna percezione di crescita. Proprio per questo le metriche sono così importanti nel growth hacking.
“Hacking” invece va inteso come l’insieme dei metodi, delle tecniche e delle operazioni volte a conoscere, accedere e modificare un sistema e quindi prima di tutto come l’applicazione del pensiero laterale per trovare soluzioni non convenzionali a dei problemi.
Un hacker, infatti, è qualcuno che fissato un obiettivo preciso, fa di tutto per raggiungerlo e il growth hacker è un tipo specifico di hacker che ha come obiettivo in genere la crescita aziendale.
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Tra le caratteristiche che definiscono il growth hacking come metodologia e più nello specifico come mindset è sicuramente l’approccio “granulare” (cfr. Raffaele Gaito in Growth Hacking Mindset) alla risoluzione dei problemi, con la capacità di miscelare una costante visione d’insieme con un focus assoluto sul singolo, piccolo problema; in altre parole prendere un problema di grandi dimensioni e scomporlo in tanti problemi di dimensioni ridotte, che conseguentemente richiedono un investimento minore di risorse ma che porta a risultati migliori nel lungo periodo.
Il metodo che utilizza il growth hacking per la scomposizione dei problemi è il famigerato framework AARRR (Awareness, Acquisition, Activation, Retention, Revenue e Referral) o hacking funnel, destinato ad aiutare a identificare i punti sui quali un’azienda dovrebbe concentrare i propri sforzi per migliorare il raggiungimento dei propri obiettivi.
Queste cinque fasi hanno una cosa in comune: sono estremamente importanti per la crescita di un’azienda e per le organizzazioni in generale. Se un’azienda ne trascura il monitoraggio, non avrà un modo efficace per sapere “se sta andando bene o meno”.
Ognuna delle misurazioni del framework AARRR si rivolge a un campo di intervento: dalla cattura dell’attenzione degli utenti verso un’attività, all’aumento della redditività. I campi non si sovrappongono ma danno piuttosto forma a una sequenza ideale che, una volta posta in atto con successo, garantisce all’organizzazione la maggiore produttività possibile.
Assunzioni = Crescita? Il growth hacking per il recruiting
Proviamo allora a ripercorrere il “growth hacking funnel” in ottica HR, dove al posto dei clienti e del prodotto possiamo ritrovare le persone coinvolte nel ciclo di vita organizzativa, a partire ovviamente dai momenti di acquisizione e recruitment.
La fase di awareness può rappresentare l’inizio dell’imbuto, nella quale la persona viene a contatto con l’employer brand e diventa per l’appunto consapevole della sua esistenza. È qui che solitamente ritroviamo molte “vanity metrics” dell’employer branding, come ad esempio il numero di visitatori nella pagina “lavora con noi” o il numero di follower sulla pagina aziendale di Linkedin.
La fase di acquisition riguarda invece il momento in cui il job seeker lascia all’azienda i propri contatti o inizia a seguire attivamente l’employer brand sui social.
La fase di activation probabilmente può essere paragonata alla vera e propria job application per una posizione aperta; si tratta di un passaggio importante poiché potrebbe essere misurato come reale tasso di conversione di un utente da semplice visitatore a candidato effettivo.
Proseguendo il viaggio nel funnel, incontriamo il passo della retention, che nel marketing si identifica con gli utenti di una piattaforma che continuano ad utilizzarla con costanza, mentre nella nostra metafora HR potrebbero essere coloro che effettivamente partecipano al processo di selezione previsto e quindi il coinvolgimento nei test, nelle prove attitudinali, nei colloqui o ad altri strumenti di screening e selezione delle candidature.
La quinta fase del growth hacking funnel è la revenue, che nella similitudine HR avrà a che vedere con gli utenti/candidati che realmente sono stati assunti e sono concretamente diventati membri dell’organizzazione.
Ragionare anche qui con le metriche dei tassi di conversione di assunzione rispetto all’inizio del funnel può diventare molto interessante per capire quali siano davvero le performance che devono essere attivate per la ricerca di diversi profili nell’ambito della talent acquisition.
L’ultima fase, che potrebbe sembrare meno importante, è quella che nel mondo del marketing è chiamata “referral” e riguarda i follow-up nei confronti dei clienti acquisiti che hanno proceduto con l’acquisto di un prodotto.
Nel nostro caso potremmo invece fare riferimento a tutte le persone che hanno intrapreso il candidate journey e che, scartati, in un modo o nell’altro, parleranno del brand o dell’imprenditore che li ha coinvolti nel processo di selezione. Immaginare, ad esempio, per questo target l’inserimento in una community, in una newsletter o in qualsiasi altro strumento di fidelizzazione al brand può significare un concreto sviluppo di una talent pool e di un network di persone che possono veicolare anche per le future job opportunities un canale di riferimento.
Il growth hacking per attrarre i talenti
Nell’ambito della talent acquisition può diventare utile la similitudine anche rispetto alle strategie che possono essere messe in atto per promuovere il proprio “prodotto” HR (ovvero la posizione aperta) laddove sappiamo che ci sarà competizione nella ricerca di figure professionali specifiche con altri employer brand.
Per migliorare il proprio growth hacking funnel nell’employer branding è bene predisporre una posizione che sia davvero attraente per il target di riferimento.
I giovani job seeker (considerando in questo caso i cosiddetti “alti potenziali” introvabili per il mondo aziendale) possono essere oggi molto smaliziati nella scelta di quale brand considerare per fare application. Se il “prodotto”/la posizione è “difettoso”/”effimera” le persone lo verranno a sapere molto facilmente.
Ricevere feedback anche sulle job description o sulla candidate experience da parte delle persone che hanno fatto application o dai neo-assunti può diventare senz’altro un modo per affinare costantemente la modalità di presentazione delle opportunità rispetto a quel target specifico.
Laddove studenti in target entrano in contatto con il brand aziendale tramite progetti di sinergia scuola-lavoro o altre occasioni di interazione con il territorio, può diventare molto valido immaginare quelle esperienze come dei “test-drive” di ciò che propone l’employer brand.
Come fosse una versione gratuita del proprio “prodotto” da far testare ad un gruppo selezionato di persone per poterne individuare punti di forza da enfatizzare e punti di debolezza su cui intervenire.
Il target del nostro HR growth hacking non può certo essere “chiunque” e, come nel marketing, dobbiamo passare attraverso delle fasi di sperimentazione (soprattutto quando le professioni cambiano continuamente, sono “nuove” o non esistono ancora).
Segmentare il pubblico su cui approcciare le strategie di employer branding significa anche conoscere a chi portare valore aggiunto in termini di crescita personale e professionale per poi puntare lì i propri sforzi (ed efficientare i costi).
Come abbiamo visto l’idea è quella di diventare dei “growth hacking recruiter”, che sfruttano in modo curioso e sicuro i social media, la tecnologia e i dati per raggiungere obiettivi di assunzione con un investimento finanziario minimo; che utilizzano strumenti di marketing digitale per ottimizzare e convertire i candidati giusti (SEO, UX, content marketing, etc.) ma anche capacità tecniche per automatizzare alcuni processi (scraping, bot, AI, etc.).
Ma soprattutto adottare un atteggiamento, piuttosto che sposare una determinata metodologia di misurazione dei risultati. L’analisi delle metriche individuate nelle fasi AARRR dovranno essere seguite allora da momenti non solo di analisi, ma di azione, in ogni fase di crescita del funnel, e con la messa in opera di esperimenti continui.
Sposare la mentalità del Growth Hacking nei processi di People & Culture
Per sposare un nuovo mindset come quello del growth hacking è importante visualizzare le fasi che ne distinguono l’approccio sperimentale e di esecuzione, che molto assomiglia alle metodologie di sviluppo agile o lean startup.
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Richiamando ancora il framework di Luca Barboni e provando a sintetizzare, è possibile riconoscere una fase di ideazione (o brainstorming dove si generano proposte), una di prioritizzazione (per assegnare punteggi alle idee e sistematizzare il processo creativo), una di esecuzione (basata sulla progettazione di test e nella loro implementazione) e una di analisi (dove si verifica il raggiungimento o meno dei risultati sperati.
Se l’esperimento è di successo diventa una best practice da sistematizzare altrimenti il processo ricomincia dalla fase di progettazione di nuovi test, fino ad avvicinarsi in maniera incrementale e iterativa al “good for enough”.
Se proviamo a vestire i panni di un HR “growth hacker” è possibile allora immaginare le fasi di sviluppo di un nuovo “prodotto”/“servizio” dedicato alla people & culture aziendale in tre passaggi fondamentali: il fitting tra i problemi delle persone e la soluzione HR, il fitting con il contesto aziendale, ed infine la crescita organizzativa e dell’individuo a livello professionale.
PEOPLE PROBLEM/SOLUTION FIT
Nel marketing chi può giudicare la perfezione di un’accoppiata tra il problema e la soluzione? Lo fa il cliente.
Il “problem/solution fit” corrisponde alla fase iniziale di validazione dell’idea. Come fare dunque a ricercare questa coppia perfetta tra problema e soluzione, questa corrispondenza anche nelle iniziative e nei servizi che l’HR attiva nei confronti della popolazione aziendale?
Seguendo il motto del movimento Lean startup: “get out of the building”, ovvero “esci fuori dall’ufficio e incontra di persona i tuoi utenti”.
Incontrare e intervistare i propri colleghi e colleghe è il modo più diretto e più efficace ed economico di avere dati provenienti da persone reali sul problema, e poi sulla situazione, che vorremmo affrontare all’interno o all’esterno dell’organizzazione: ad esempio, conoscere profondamente il target di nuove generazioni che vogliamo assumere o le differenze generazionali che si riscontrano nel nostro ambiente organizzativo.
Sarà importante rispettare alcune domande chiave quando conduciamo questo tipo di indagini: “ti capita mai di avere questo problema x? Quanto spesso ti capita? Mi racconteresti com’è andata l’ultima volta? Che cosa hai fatto per risolverlo? Se è rimasto soddisfatto da questa soluzione?”
In questi quesiti non vi è traccia della soluzione (che in questo approccio non può essere preconfezionata o imposta tout court alla popolazione aziendale).
Questo perché non si deve imporre la propria visione alle persone; è consigliabile fare un primo giro di interviste necessario individuare il segmento organizzativo ideale che effettivamente soffre del problema.
Una volta individuato, e conosciuto a fondo il problema, possiamo ripetere l’intervista aggiungendo come elemento finale una breve presentazione della nostra soluzione e raccogliere feedback.
SERVICE/PEOPLE FIT
Conosciuto il contesto di riferimento conosciamo un problema e una soluzione.
Per andare avanti però non ci bastano più delle interviste qualitative: abbiamo bisogno di dati numerici.
Per farlo, bisogna costruire un MVP (minimum valuable product) ovvero minimo prodotto fattibile, che consiste in un artefatto che permette: all’utente di avere un’esperienza del prodotto HR che abbiamo in mente (più o meno fedele alla versione finale); all’HR di raccogliere dati quantitativi sul comportamento delle persone (più o meno velocemente); all’HR di fare questa raccolta su un campione di persone in target (più o meno scalabile).
Per minimizzare il rischio di creare qualcosa che non abbia presa sul contesto organizzativo lanciamo piccoli test e sondiamo la reazione delle persone (banalmente, quante hanno cliccato alla newsletter interna? Quante hanno “convertito” con una partecipazione effettiva al programma di training?, etc.).
Sean Ellis, l’inventore della parola “growth hacking” propone un metodo specifico per misurarlo: lanciare un sondaggio alla base utenti, chiedere loro come si sentirebbero se il servizio che viene offerto, dall’oggi al domani, fosse ritirato (con opzioni di risposta chiusa molto deluso/piuttosto deluso/per niente deluso/adesso non sto usando il servizio); se il 40% di loro risponde che “molto delusi” o “arrabbiati”, significa che siamo molto vicini al “service/people fit”.
Il metodo si basa in un certo senso su una semplice domanda: se il tuo servizio HR fallisse qualcuno se ne accorgerebbe?
PROGRESSO E CRESCITA
Aver raggiunto il “service/people fit” significa contemporaneamente avere colleghi attivi, fedeli, che passano parola perché soddisfatti dell’employer brand. Queste condizioni gettano le fondamenta per una crescita.
Si dice spesso che la peggior decisione di marketing che si possa fare è tentare di vendere un prodotto che non vuole nessuno. E lo stesso può valere per la gestione delle persone in azienda: “vendere” una soluzione o un benefit che nessuno desidera può essere davvero un boomerang sotto molti punti di vista.
Nelle fasi precedenti ci siamo concentrati prima di tutto sull’attrarre il nostro target di persone che più di tutti manifesta il problema che proviamo a risolvere e che perciò vede il maggior valore nella nostra soluzione. Ma se inizialmente acquisire utenti era una scusa per generare dati e imparare come migliorare nell’ultima fase di sviluppo e crescita dobbiamo iniziare a estendere e coinvolgere una fetta più ampia di popolazione.
Una volta validato il primo “mattone” possiamo dare fondo alle innumerevoli tecniche di engagement da mutuare dal marketing (content marketing, social media, ads, SEM&SEA, SEO, eventi offline, newsletter, affiliate marketing, unconventional PR, etc.), a patto che il nostro mindset sia sempre sperimentale e attento a correggere continuamente il tiro con continui “fine tuning” della nostra strategia di engagement.
Perché le risorse umane dovrebbero diventare hacker della crescita
Le tecniche del growth hacking declinate per l’HR, come abbiamo visto, possono essere rivolte alla crescita delle persone e dell’organizzazione in tutte le fasi del ciclo di vita organizzativo, non solo nella similitudine con la talent acquisition e dei funnel di selezione.
“Hackerare” la crescita significa incidere significativamente su tanti aspetti della vita aziendale in cui le persone entrano in contatto con l’employer brand.
Ad esempio, nelle fasi di onboarding, l’hacking della crescita può avere l’obiettivo di massimizzare il coinvolgimento di ogni nuovo assunto, costruendo e misurando lo scambio sociale che i newbie avranno con i nuovi colleghi e colleghe e identificando i touchpoint sociali misurabili.
Oppure nella comunicazione interna, quanto può essere proficuo avere una mentalità da growth hacker? Come sappiamo non sempre “one size fits all” e la personalizzazione delle informazioni (da area ad area, da divisione a divisione) può essere adattata a partire dall’adattamento dei contenuti a partire dalla segmentazione e dall’analisi dei dati raccolti nelle fasi di test compiuti nelle comunicazioni.
Per aumentare il c0involgimento, dobbiamo segmentare il nostro “pubblico”.
Parte integrante del growth hacking, inoltre, è testare, osservare, modificare e ripetere, ma soprattutto imparare da tutto il processo. Per crescere dobbiamo testare nuovi modelli di apprendimento e imparare da essi, e creare una cultura della sperimentazione che si possa basare sull’ “E se facessimo così?” invece che “Abbiamo sempre fatto così!”; è il principio primo su cui si devono basare oggi tutte le strategie di learning & development in azienda.
Un aspetto fondamentale del growth hacking è infine l’analisi dei dati. Sentiamo parlare molto di big data soprattutto nel marketing, ma non dobbiamo considerare le metriche solo come una mera funzione di reporting, ma soprattutto come ispirazione per il miglioramento dei processi, la segmentazione basata sui dati e un migliore processo decisionale. Combinare le survey interne già largamente utilizzate dal mondo HR con attività misurabili e dashboard di informazioni ulteriori può diventare una scelta vincente in chiave strategica e di conoscenza concreta della cultura aziendale.
Last 2cents: senza la viralità, l’hacking della crescita non riesce a prosperare. Avere contenuti che dipendenti e collaboratori vogliono condividere in maniera organica è davvero l’optimum a cui tutti vorrebbero tendere.
E allora “Growth Hack It!”: iniziamo a portare qualcosa di nuovo nelle prossime riunioni di people strategy in azienda.
Sfruttiamo l’analisi dei contenuti pertinenti ai diversi team di lavoro, discutiamo dell’impatto che può avere una campagna per i propri dipendenti testandolo in modo virtuoso prima di implementarlo a tutta la popolazione. Iniziamo a far vivere a colleghe e colleghi la mentalità della crescita organizzativo, dello sviluppo personale e dell’apprendimento, poiché è forse davvero la cosa più importante che serve in questo frammentato mercato del lavoro.
Source: http://www.ninjamarketing.it/