Durante la presentazione dell’attesissimo trailer del film La Sirenetta, in uscita nelle sale nel 2023, Disney ha rivelato che Ariel sarà interpretata dalla cantante e attrice afroamericana Halle Bailey.
La scelta di una professionista nera ha da subito generato numerose polemiche sui social, animate prevalentemente da pregiudizi razziali.
I leoni da tastiera si sono appellati a numerose teorie: dall’impossibilità di una sirena nera all’ormai gettonatissimo e stucchevole “politicamente corretto” a tutti i costi.
Eppure, a fare da controcanto a queste critiche, ci sono le reazioni delle bambine e dei bambini afroamericani che si sono commossi ed emozionati vedendosi finalmente rappresentati sul grande schermo nel live action di uno dei cartoni animati più amati al mondo.
Cosa c’entra tutto questo con il marketing inclusivo? C’entra eccome
“Inclusione non significa combattere formalmente stereotipi triti e offensivi, ma significa offrire a personaggi di qualsiasi ambiente socioculturale l’opportunità di raccontare la propria storia, senza renderla la storia principale”.
Con poche e semplici parole Shonda Rhimes descrive perfettamente il senso della narrazione inclusiva: dare dignità ad ogni tipo di storia e ad ogni tipo di persona.
Ecco perché Ariel interpretata da un’attrice afroamericana ha un potere così forte, così come lo ebbe, con annesse polemiche, il ruolo nei panni di Lupin dell’attore senegalese Omar Sy.
In questo diverso approccio alla rappresentazione, la pubblicità gioca un ruolo fondamentale, sia per la sovraesposizione che ha il pubblico a questo genere di narrazione, sia per l’impatto che ha nell’influenzare i comportamenti delle persone.
Cos’è il marketing inclusivo
MJ De Palma, responsabile del marketing multiculturale e inclusivo per Microsoft Advertising, lo ha definito “come il marketing che può evidenziare o risolvere un aspetto della diversità dove si verifica l’esclusione”.
In altre parole le campagne di marketing inclusivo hanno l’obiettivo di parlare a tutte le persone, anche quelle emarginate o sottorappresentate, ma lo fa rompendo gli stereotipi e facendo arrivare a quei gruppi il messaggio che il brand li vede, li capisce e, di conseguenza, parla di loro e a loro.
Perché tutto questo diventa un valore aggiunto nella comunicazione di un brand? Perché il punto fondamentale di questa strategia sono proprio le persone.
KPI, dati, analisi, performance, investimenti. Spesso ci dimentichiamo che, al di là dei numeri, ci sono essere umani reali con esigenze reali.
Ecco allora che il marketing, per essere efficace, deve tenere in considerazione la diversità in ogni sua forma.
E quando parliamo di diversità ci riferiamo a 7 aree: genere e identità di genere, disabilità, età, etnia, orientamento sessuale e affettivo, status socio-economico, religione o credo.
L’esempio LGBTQIA+ friendly di IKEA
Quanto è potente il messaggio di un brand come IKEA che, nella giornata mondiale contro l’omolesbobitransafobia, che si celebra ogni anno il 17 maggio, decide di lanciare un messaggio contro la discriminazione delle persone LGBTQIA+. Casa Puoi Essere Tu, questo il claim della campagna, è l’invito a far sentire accolto chiunque, a prescindere dal proprio orientamento sessuale e dalla propria identità di genere.
I più maliziosi potrebbero pensare che sono solo belle parole. In realtà IKEA si impegna attivamente con veri e propri piani di inclusione a livello globale e, inoltre, supporta associazioni che ogni giorno si impegnano contro le discriminazioni della comunità, come ad esempio l’Associazione Quore, impegnata nel settore del co-housing per le persone LGBTQIA+ che hanno dovuto abbandonare la propria abitazione in seguito al coming out.
Questo è un punto chiave, non basta fare una bella campagna se non è supportata da fatti veri, capaci di ridurre le distanze per i gruppi marginalizzati . A meno che ci si voglia imbattere nel tortuoso e anche abbastanza tossico mondo del woke washing, ossia della strumentalizzazione dell’inclusione a meri fini commerciali.
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Ecco alcuni dati
D’altra parte, l’inclusività non fa bene solo all’immagine di un brand ma anche alle sue economie. Infatti, secondo un sondaggio condotto da Microsoft, il 70% dei giovani si fida maggiormente delle aziende che rappresentano la diversità nella loro comunicazione. Addirittura il 54% dei millennial afferma di preferire un marchio inclusivo rispetto ad un concorrente. Il 49%, invece, ha smesso di acquistare prodotti di aziende che non rispettano i valori in cui crede.
Questi dati sono confermati anche da Salesforce, secondo cui il 90% dei clienti crede che le aziende debbano avere la responsabilità di guardare oltre il profitto e impegnarsi a costruire un mondo migliore.
Un recente studio globale sulla diversità nel marketing ha dimostrato che il 72% delle persone pensa che la maggior parte delle pubblicità non rispecchia il mondo che li circonda e il 63% non si vede proprio rappresentato.
Le pubblicità spesso promettono di risolvere i problemi dei consumatori, ma come può un’azienda essere credibile se neanche riesce a rappresentare il suo pubblico?
Non si tratta solo di vezzi o di fronzoli, si tratta di arrivare al cuore delle persone, perché è questo che si aspettano oggi da un brand.
Le persone non comprano più solo ciò che gli piace, ma scelgono ciò in cui credono e che sostengono. Dovrebbero farlo anche le aziende.
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