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Il pezzo di carta non basta più: cosa emerge dai dati sulle previsioni occupazionali

Il mantra che abbiamo sentito ripetere dalle generazioni più adulte è sempre stato “Senza un pezzo di carta non si va da nessuna parte”.

Per molto tempo il “pezzo di carta” fondamentale è stato il diploma di maturità; negli ultimi anni, sempre di più, il minimo indispensabile è diventato molto spesso un altro certificato, quello di laurea.

Senza laurea, infatti, si resta automaticamente esclusi da una gamma molto ampia di lavori. Non è un caso se il dato relativo ai laureati in Italia è andato via via aumentando, pur rimanendo al di sotto del livello medio europeo: nel nostro Paese, tra la popolazione tra i 25-64 anni, solamente un quinto risulta laureato rispetto al 32,3% europeo.

Il nuovo inizio dell’anno scolastico fa riflettere sempre sulla centralità della scuola e dell’università nello sviluppo della cittadinanza, ma apre sempre a nuovi dibattiti e riflessioni sull’efficacia delle stesse, sui contenuti e sui programmi, sulle modalità, sull’ibridazione tecnologica più o meno prevalente ed efficace.

Spesso si tralascia l’approfondimento sul metodo, rimanendo superficialmente a questionare su quali materie insegnare nelle scuole: il pensiero di molti è quello di basare la scelta dei contenuti scolastici a partire dalle richieste delle grandi aziende oggi sul mercato del lavoro.

Purtroppo, in questa accezione, esistono errori di prospettiva e di interpretazione che non possono essere tralasciati.

Formare specialisti richiede tempo e non sempre le richieste delle imprese rimangono le stesse per molti anni come in passato.

Come sappiamo, le necessità professionali cambiano vorticosamente e sono estremamente influenzate anche dalle mode e dalle opinioni che vengono diffuse incessantemente sul tema.

Il rischio mediatico è sempre di creare illusione e confondere le nuove generazioni per incapacità di immaginare concretamente il futuro del lavoro.

Purtroppo, è naturale che si tenga conto dei punti di vista delle grandi aziende che sono solitamente anche quelle che hanno voce per esprimere i propri fabbisogni professionali, ma questo non significa che valga lo stesso per le migliaia di piccole microimprese (che costituiscono la parte più cospicua del mercato) che in buona parte ricercano lavoratori in settori tradizionali e anche con bassa qualifica.

Proviamo allora ad analizzare cosa effettivamente emerge dai dati sulle previsioni occupazionali per decifrare quali siano i capisaldi da tenere a mente quando discorriamo di istruzione.

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Cosa richiede il mercato del lavoro

C’è da ricordare sempre, prima di ogni altra considerazione, che la percentuale di italiani che ha solo un titolo di scuola media o elementare raggiunge il 50%, più un ulteriore 8% di persone non-analfabete ma che non possiedono alcun titolo. In pratica, 6 italiani su 10 non hanno un titolo di studio superiore!

Molti sono anziani che probabilmente non hanno avuto in passato l’opportunità di proseguire gli studi. Questa è lo scenario che fa da base a tutti i ragionamenti.

Pensando ai laureati, questi sono solo il 9% del totale e, ogni anno, i nuovi sono circa 320.000, su una base di circa 1 milione e 800 mila studenti iscritti a corsi universitari o di alta formazione artistico-musicale.

Quindi i giovani sono complessivamente più istruiti: il 75% (pari al 9% dei 25-34enni); le facoltà dove orienta le proprie scelte chi si immatricola oggi all’università sono soprattutto Economia, Medicina, Ingegneria e le facoltà d’indirizzo scientifico.

Forse questo dimostra allora quanto i giovani siano, tutto sommato, allineati alle richieste del mercato del lavoro.

Il tasso di occupazione che infatti viene registrato per queste facoltà (a 5 anni dalla laurea) è intorno al 90%, contro un 75% per le facoltà di ambito letterario, giuridico e psicologico, dove i guadagni sono minori anche dal punto di vista retributivo.

Stando alle ultime analisi compiute da Unioncamere, attraverso il Sistema Informativo Excelsior nell’ultimo report “Previsioni Dei Fabbisogni Occupazionali e Professionali in Italia a Medio Termine (2021-2025)”, per il prossimo quinquennio si prevede un fabbisogno occupazionale dei settori privati e pubblici compreso tra 3,5 e 3,9 milioni di lavoratori, di cui 933mila-1,3 milioni di unità determinate dalla componente di crescita economica (denominata expansion demand), considerando anche l’impatto dei diversi interventi previsti dal Governo e dal piano finanziato Next Generation UE.

Il turnover riguarderà invece il restante 70% del fabbisogno di occupati.

Ecosostenibilità e digitalizzazione saranno quindi sempre di più i temi su cui si concentrerà l’attenzione rispetto allo sviluppo di competenze: la transizione verso la sostenibilità ambientale richiederà competenze green a professioni trasversali in più settori, oltre a tutte quelle professioni più tradizionali già esistenti.

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Per quanto riguarda le competenze digitali, STEM e di innovazione 4.0, verranno ricercate con un e-skill mix (il possesso con elevato grado di importanza di almeno due e-skill) in una stima tra 886mila e 924mila unità.

La domanda di competenze digitali interesserà sia figure professionali già esistenti quanto nuove professioni emergenti, come data scientist, big data analyst, cloud computing expert, cyber security expert, business intelligence analyst e artificial intelligence system engineer, sia le figure più tradizionali che necessiteranno di digital skill per affrontare il mondo del lavoro che cambia.

Si stima inoltre che le professioni specialistiche e tecniche, con un fabbisogno intorno a 1,5 milioni di occupati nel quinquennio, rappresenteranno oltre il 40% del totale del fabbisogno occupazionale, in crescita rispetto al recente passato, soprattutto per la domanda del settore pubblico nei prossimi anni.

Inoltre, dall’analisi di settore, dopo un 2020 in forte sofferenza per l’ambito “commercio e turismo”, emerge una domanda di più di 500mila occupati nel quinquennio successivo, così come la carenza di profili medico-sanitari (stimata in circa 11-13mila laureati all’anno) dipenderà dall’invecchiamento della popolazione e dall’adeguamento dei sistemi sanitari post-pandemia.

Le altre filiere che potranno esprimere ampi fabbisogni occupazionali tra 2021 e 2025 sono “formazione e cultura” (453-492mila unità), “altri servizi pubblici e privati” (477-512mila unità) e “costruzioni e infrastrutture” (192-210mila unità).

LEGGI ANCHE: Ingegneri, informatici e le altre professioni di cui le aziende hanno bisogno

Sono però necessarie alcune precisazioni sulla base di questa domanda: chi si laurea in filologia romanza, è destinato a rimanere escluso dal mondo del lavoro?

Non ci sono certezze su questo: Stando ai dati, per i laureati, il confronto domanda-offerta (al netto dei laureati in cerca di lavoro già presenti sul mercato), evidenzia una situazione di lieve carenza di offerta, ma con notevoli differenziazioni per indirizzi. Si stima comunque una carenza di offerta negli ambiti medico-sanitario, scientifico-matematico-fisico, ingegneria e architettura.

Per i diplomati si riscontra invece un fabbisogno superiore all’offerta, in particolare per l’indirizzo amministrativo marketing, costruzioni, trasporti-logistica e agro-alimentare. Si delinea un sostanziale equilibrio per l’indirizzo sociosanitario e per l’industria-artigianato. Per l’indirizzo turistico e l’insieme dei licei emerge un rilevante eccesso di offerta di profili.

Tecnologia a scuolaTecnologia a scuola

Laurea o Diploma? Questo è il dilemma

In definitiva, è meglio il diploma o laurea per trovare lavoro?

Tra i vantaggi di un’educazione non universitaria troviamo la possibilità di apprendere competenze forse più direttamente spendibili, un costo e una durata complessiva del percorso di studio ovviamente minore, probabilmente un inserimento più diretto rispetto ad alcune tendenze di mercato o alle nuove tecnologie, ma di contro vi saranno svantaggi legati all’esclusione da quelle professioni che richiedono un titolo accademico, minori opportunità di ingresso nel settore pubblico o nelle grandi aziende per tipologie di lavori basati sull’economia della conoscenza.

Non esiste, ahimè, una risposta univoca, soprattutto in un contesto socio-economico come quello attuale dove tutto è sempre in un perenne cambiamento.

Le nostre scelte devono basarsi sempre su un’attenta valutazione di noi stessi rispetto anche alla nostra attitudine allo studio. Sono tanti i ragazzi e le ragazze che non hanno iniziato subito un percorso accademico dopo il diploma e che hanno iniziato a sperimentare il lavoro, per poi iscriversi magari dopo qualche anno ad una facoltà, con alle spalle le esperienze sul campo e decifrando solo in quel modo quale fosse il loro tragitto professionale.

In certe situazioni è interessante valutare anche l’offerta dei percorsi ITS, l’Istruzione Tecnico-Superiore che permette studi biennali nei campi della moda, del turismo, delle tecnologie e programmati su base regionale, in base alle peculiarità che quel tessuto economico offre.

Nello scenario del mercato professionale sarà molto rilevante anche il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione: la trasformazione demografica potrebbe generare una carenza di offerta di lavoro, rischiando di peggiorare il mismatch nel breve periodo in mancanza di politiche adeguate di re-skill.

Insomma, non è mai troppo tardi per imparare e in Italia, diversamente da altri Paesi Europei, il 75% degli italiani fa un mestiere che non corrisponde al titolo di studio che ha ottenuto. Trovare subito un lavoro non significa anche mantenerlo per tutta la vita (come forse avveniva con le generazioni precedenti).

Come amava ricordare Maria Montessori “La caratteristica peculiare dell’Università consiste nell’insegnare a studiare. La laurea è solo la prova che si sa studiare, che si sa acquisire formazione da sé stessi e che ci si è trovati bene nei percorsi della ricerca scientifica… Se si è imparato ad imparare allora si è fatti per imparare. Una persona con una laurea è dunque una persona che sa meglio destreggiarsi nell’oceano della formazione. Ha ricevuto un orientamento

Il titolo di studio in fondo è un tassello a metà tra le nostre caratteristiche/attitudini e le opportunità professionali che si presentano e si presenteranno nel mondo del lavoro.

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La sfida è provare a superare quel principio di omologazione dove rimane un’idea di fondo che spinge tutti a limitare l’imprevisto, il rischio e le non conformità. La psiche umana desidera inevitabilmente e fisiologicamente soluzioni snelle e univoche (per la serie: se esistono 100 posizioni aperte servono 100 job seeker adeguati. Ergo, la scuola deve formare quei 100 che devono “fittare” perfettamente), ma con pensieri purtroppo semplicistici.

Tornando alla quaestio iniziale, tra chi ritiene che la scuola debba formare dei lavoratori o dei cittadini, la posizione più giusta è forse immaginarla come l’esperienza formativa che le persone hanno a disposizione per imparare a scegliere il proprio percorso individuale.

Una scuola efficace, equa, inclusiva e “ibrida”

In uno scenario professionale che lamenta la mancanza di competenze o di titoli specifici per esigenze specifiche, per migliorare la transizione tra il mondo dell’istruzione e quello lavorativo è probabilmente utile pensare ad elementi adattativi della scuola in termini di inclusione e ibridazione tra innovazione e tradizione (tecnologica, metodologica, contenutistica, etc.).

In termini generazionali, non dimentichiamo che quando si parla di “ascensore sociale bloccato”, spesso si sottovaluta il ruolo giocato dall’istruzione; da anni esistono dati che dimostrano un legame praticamente ereditario tra il titolo di studio dei genitori e quello dei figli.

Un’ultima ricerca INAPP porta nuove evidenze a sostegno di questa tendenza: tra i figli di genitori con la laurea, il 75% ha la probabilità di laurearsi a sua volta. Dato che scende al 48% tra chi ha alle spalle una famiglia dove il titolo di studio massimo è il diploma e al 12% se i genitori hanno la licenza media.

Come abbiamo visto, il sistema universitario italiano presenta comunque il problema di produrre un numero consistente di laureati, specie nei settori in cui le imprese ne hanno maggior bisogno. La difficoltà è dovuta anche al fatto che i costi per l’istruzione universitaria sono in aumento e i meccanismi di finanziamento risultano inadeguati (borse di studio insufficienti) o perché pongono il rischio di investimento su studenti e famiglie. Queste ultime spesso non sono in grado di tradurre le informazioni e valutare correttamente il valore dell’istruzione.

A livello di sistemi scolastici, non dobbiamo necessariamente replicare i modelli esteri poiché inevitabilmente non si può “fotocopiare” un metodo.

Cosa rende un sistema educativo migliore di un altro? È possibile stabilire delle regole generali? Secondo un report di Eurydice la risposta è affermativa se, oltre al perseguimento dell’efficacia, si considera l’obiettiva di una scuola equa e inclusiva.

Tra i sistemi educativi europei più virtuosi ci sono quelli di Irlanda, Estonia, Lettonia, Danimarca e Finlandia. Tutti questi paesi, tranne l’Irlanda, hanno un’organizzazione a struttura unica (elementari e medie in unico ciclo), che sembra quindi essere una formula vincente.

In particolare, i principi del modello educativo finlandese si pongono come obiettivi di offrire a tutte le persone equità nell’accesso all’istruzione, di far maturare nei ragazzi e nelle ragazze capacità di pensare in modo autonomo e di esercitare l’autovalutazione; in parallelo, l’autonomia del sistema scende a tutti i livelli (gestionale e amministrativo, delle scuole e degli insegnanti, che hanno piena autonomia pedagogica in termini di metodo, libri di testo, etc.).

Per attuare un cambiamento di mindset culturale è però necessario un ripensamento che parta dai principi di inclusione generazionale.

Per chi suona la campanella? La Scuola come comun divisore di inclusione generazionale

Quando proviamo a considerare quali siano i punti di contatto che possono permettere un dialogo virtuoso tra individui di età distanti, in primis viene in mente il tema della scuola.

L’istruzione scolastica è in fondo quell’esperienza, se vogliamo “inevitabile”, da cui siamo passati tutti.

L’istruzione obbligatoria, tra l’altro, esiste da più di 150 anni (venne introdotta in Italia già durante l’epoca napoleonica perseguendo un principio molto moderno di uguaglianza di opportunità e poi consolidata ulteriormente dalle Riforme scolastiche principali del nostro Stato come la Legge Casati del 1859 e la Legge Coppino del 1877), pertanto non credo esistano generazioni in vita oggi che non l’abbiano vissuta, anche solo per pochi anni di scuola elementare.

Ancor di più, le materie e la struttura dei programmi scolastici istituiti con la Riforma Gentile del 1923, sono rimasti invariati fino agli Sessanta e una buona percentuale di quei paradigmi contenutistici perdura ancora nei programmi scolastici attuali.

Tutto questo per dire che “parlare di scuola”, o meglio di apprendimento e educazione, può diventare una chiave di volta per raccontare le differenze generazionali ma anche soprattutto individuare gli elementi di contatto su cui è possibile sviluppare il miglioramento di un’istituzione, come quella dell’Istruzione, che proprio grazie alla condivisione di esperienze attuali mescolate a quelle di chi “ci è già passato”, può sviluppare idee nuove e progresso pedagogico a tutto tondo.

L’importante è non cadere nella tentazione da parte della popolazione adulta o genitoriale di dire “la scuola non è più quella di una volta” e di provare a pensare di più fuori dagli schemi.

Per anni abbiamo pensato a un’istruzione separata dall’educazione che ha trascinato con sé il disinteresse per la conoscenza e le discipline. Per cambiare le cose è necessario che un’intera generazione di adulti e millennials si fermi a riflettere su questa questione.

Forse attualizzando (provandoci ancora una volta) l’idea trasgressiva di Ivan Illich per cui “la scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è”, rivalutando la critica della modernità e della tecnologia verso una nuova coerenza: il dono e la sorpresa costituiti dall’altro possono solo apparire quando questo spazio è aperto.

Tecnologia a scuolaTecnologia a scuola

L’immediatezza dell’incontro con l’altro è ostacolata da quegli strumenti “non-conviviali” come la scuola laddove viene limitata a confezionare l’apprendimento o semplicemente a selezionare le persone “giuste”.

Ai fini dell’incontro intergenerazionale, il terreno dell’apprendimento e della condivisione di competenze può anche essere declinato per formulare una scuola migliore attraverso il dialogo tra chi vive o ha vissuto il mondo del lavoro e ne conosce i fabbisogni più concreti e chi sperimenta quotidianamente l’attualità e intravede i bisogni della società in cui sarà nel breve futuro più adulto.

Perché no, all’interno di un contesto aziendale, come un “hackathon” continuativo nel tempo con l’obiettivo di disegnare la scuola e il lavoro del futuro.

Quando una campana rintocca ci ricorda che noi non siamo degli individui isolati ma facciamo parte di una comunità: un concetto evocato da John Donne nel suo celebre sonetto “No Man is an Island”: «…And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee» («E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te»).

E la campanella della scuola suona tutti gli anni per tutti noi, ricordandoci che l’individualismo o la visione unilaterale non aiutano al progresso della società. Pensare alla scuola e al mondo del lavoro è un processo sistemico poiché ogni cosa che facciamo si ripercuote, anche se forse non ce ne rendiamo conto, su tutto quanto ci circonda.

Source: http://www.ninjamarketing.it/

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