In un mondo del lavoro post-pandemico dove il concetto di ricerca del benessere ha invaso la cultura organizzativa, sempre di più stiamo notando un’evoluzione del mercato del lavoro che denota confini sempre più fluidi tra vita privata e lavorativa.
Dai workplace, alle funzioni e ai ruoli organizzativi e, contemporaneamente, a una accelerazione ancora maggiore del senso di responsabilità sociale che le imprese introducono per contribuire al concetto di welfare state che, a livello istituzionale, sembra essere, di anno in anno, sempre più carente.
Per approcciare il tema del benessere al lavoro è necessario uno sguardo olistico e sempre più sistemico, poiché la sfida HR degli ultimi anni è proprio quella di guardare all’essere umano nella sua interezza e contemporaneamente alla sua interconnessione con il contesto che lo circonda nel ciclo di vita lavorativo.
La storia degli approcci al benessere e al sostegno degli individui nella sfera privata da parte dei datori di lavoro, in Italia ha una storia abbastanza lunga, a partire da Carlo di Borbone, sovrano del Regno di Napoli e di Sicilia, che intuì il vantaggio di assegnare ai dipendenti di una seteria un’abitazione all’interno della Real Colonia di San Leucio e l’istruzione gratuita per i loro figli.
Con la rivoluzione industriale nell’Ottocento divenne consuetudine intervenire sull’aiuto e il benessere dei dipendenti per favorire i trasferimenti dalle campagne alla città, mettendo a disposizione case, scuole, chiese e luoghi di svago (vedi il villaggio di Crespi D’Adda).
I celebri esempi italiani del Novecento di Adriano Olivetti, di Enrico Mattei e di Aldo Fascetti e hanno poi contribuito a considerare sempre di più a considerare e organizzare l’assistenza ai dipendenti per tutti gli aspetti della vita, fino alla diffusione negli ultimi trent’anni di programmi di assistenza e previdenza costruiti dalle aziende, forme di retribuzione indiretta (stock options, auto aziendali, etc.) fino agli ultimi sviluppi del sistema welfare di Luxottica nell’ultima crisi economica del 2009, con borse di studio, orientamento professionale, partnership con supermercati e negozi, convenzioni sanitarie, assistenza sociale, etc.
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Oggi si va verso un’individualizzazione e una specializzazione sempre più raffinata dei benefit e del contributo che l’azienda può dare in termini di impatto sociale attraverso il sostegno al benessere dei propri dipendenti.
Wellbeing, Wellness, Welfare: definizione e significato
Può capitare, però, che i termini wellness, wellbeing e welfare siano utilizzati come sinonimi. Si tratta di tre concetti legati all’idea di benessere, ma è giusto riconoscerne le distinzioni.
La definizione “formale” di wellness, fornita dal Global Wellness Institute, lo identifica come “il processo di ricerca attiva di attività, stili e scelte di vita che conducano ad una condizione di salute olistica”, dove dobbiamo considerare che questo tipo di benessere può superare il singolo concetto di salute fisica, ma anche verso le altre dimensioni di tipo psichico e sociale.
Il wellbeing, invece, fa riferimento ad uno stato d’essere, ad una condizione di equilibrio che si può definire di “buona salute”, sebbene sia più corretto fare riferimento in particolar modo alla salute mentale e alla sfera emozionale. Lo studio del livello di wellbeing di una popolazione aziendale può tornare utile nella misurazione dell’efficacia di determinate politiche di welfare.
Quando si parla di wellbeing e felicità, spesso si tende a interpretare queste parole a modo proprio e la definizione odierna di wellbeing è molto eterogenea.
Possiamo inquadrare il wellbeing come l’intersezione di più dimensioni: benessere fisico, mentale, emozionale, sociale, lavorativo e sociale, a cui possiamo aggiungere, giustamente, anche il benessere finanziario.
Ci sono quindi varie dimensioni che possiamo integrare nel variegato termine “wellbeing”, che dobbiamo considerare anche come l’occuparsi di se stessi e del proprio stato benefico prima di arrivare ad una crisi, cercare di star bene giorno dopo giorno, e costruire in maniera incrementale la propria serenità, senza considerarlo un punto di arrivo.
Non raggiungeremo mai necessariamente un punto di benessere finale (o di “felicità”) in nessuna di queste dimensioni.
Quando parliamo invece di welfare, stiamo invece considerando tutte quelle prestazioni attivate all’interno di una società a tutela della persona e del cittadino.
Non si tratta solo di iniziative statali (il cosiddetto “primo welfare”), ma anche di quei benefit e prestazioni che le aziende erogano a favore dei propri dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e lavorativa (welfare secondario o privato).
Le politiche aziendali volte a garantire il benessere dei collaboratori, li supportano nelle diverse fasi della vita privata basandosi su alcuni pilastri entro cui l’organizzazione si impegna a supportare il collaboratore, tra cui famiglia, benessere, previdenza e salute.
Il Rapporto Welfare Index PMI da sempre censisce che le imprese che hanno inserito il welfare nella strategia aziendale ha registrato ritorni positivi sulla produttività. Il lavoratore, sentendosi seguito e apprezzato, tende a impegnarsi di più sul lavoro, e questo comporta, oltre a una maggiore produttività, minori richieste di dimissioni, o anche maggiore attrattività occupazione verso le nuove generazioni di dipendenti.
Si tratta inoltre di correlazioni che non vanno intese in senso semplicistico, perché indicano una connessione reciproca tra le variabili esaminate: le imprese più competitive comprendono l’importanza dei fattori sociali e investono più delle altre nel welfare aziendale, e il welfare aziendale a sua volta contribuisce al miglioramento dei risultati.
Migliorare l’impatto sociale dell’azienda, occupandosi del benessere dei lavoratori e delle loro famiglie e in taluni casi aprendo i servizi alla comunità esterna, per molte imprese è divenuto un impegno programmatico non separato dagli obiettivi e dalla gestione del business.
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Tornando al concetto di wellbeing come espressione dello stato di salute delle politiche di welfare aziendale, il mondo organizzativo sta riscoprendo sempre di più le diverse aree del benessere di una persona che possono essere rappresentate nell’ambito lavorativo, col fine ulteriore di rinforzare i legami di fiducia con le altre persone e con la comunità organizzativa.
In particolare, sono rilevanti le azioni che contribuiscono significativamente a creare la relazione di fiducia tra persona e azienda; se le persone sono soddisfatte di carriera e socialità, tenderanno ad essere più soddisfatte anche nella loro vita personale
Secondo Gallup sono cinque gli aspetti che aiutano una persona a vivere “the best possible life”:
- career wellbeing: strettamente legato all’ambito lavorativo, riguarda la percezione del lavoro in linea con competenze e aspettative; si parla di career wellbeing quando consideriamo se ci piace cosa facciamo sul lavoro. Si realizza quando i datori di lavoro fanno fare alle persone un lavoro in linea con le proprie aspettative, competenze e interessi, guidandoli nel mettere a fuoco il loro purpose, crescendo come professionisti.
- social wellbeing: riguarda la necessità di avere legami di fiducia e rispetto, in un certo senso relazioni significative nella propria vita; si realizza quando le aziende riescono ad organizzare momenti di incontro informali tra le persone per creare le condizioni affinché si creino relazioni di fiducia attraverso in network professionale.
- financial wellbeing: evidenzia la possibilità di gestire al meglio le proprie finanze; si estrinseca quando nelle organizzazioni viene predisposta formazione sulla gestione finanziaria e vengono messi a disposizione professionisti del settore per supportare le persone, contribuendo a ridurre lo stress quotidiano e ad aumentare la percezione di sicurezza finanziaria a lungo termine.
- physical wellbeing: è legato al corpo e alla salute in generale e in genere alle giuste energie per la vita professionale; si mette in pratica attraverso la formazione su alimentazione e sport, o attraverso le convenzioni con palestre, centri wellness, nutrizionisti e psicologi.
- community wellbeing: riguarda la possibilità di sentirsi a proprio agio nella comunità in cui si vive e alla partecipazione attiva; gli interventi aziendali sono efficaci se fanno sentire le persone in un luogo in cui si sentono sicure e a proprio agio, e permettono di donare parte del tempo o delle competenze per momenti di volontariato o attività che abbiano un impatto sul territorio e verso gli stakeholder in cui le persone vivono.
Proviamo allora ad approfondire le diverse anime del benessere organizzativo per coglierne gli aspetti cruciali che sono all’attenzione crescente in un mondo del lavoro in piena trasformazione.
Benessere Psico-fisico e digitale: cos’è il Burnout
Il “burnout” non è solo un problema delle persone, dei collaboratori, del team. È un problema organizzativo, quando la cultura di un’impresa ha un impatto diretto sulla salute e il benessere dei lavoratori.
Come lo ha definito Maslach negli anni ’80, è considerabile come la “sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione, di ridotta realizzazione, che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente”.
Più in generale, il burnout è uno stato di esaurimento fisico ed emotivo.
Può verificarsi quando si subisce uno stress a lungo termine nel proprio lavoro o quando si lavora in un ruolo fisicamente o ad alto impatto emotivo per molto tempo e che comporta alcuni sintomi rilevanti come: il sentirsi stanchi o “svuotati”, impotenti, intrappolati, sopraffatti, distaccati, avere un atteggiamento cinico o polemico, ma anche la tendenza a procrastinare e mettere in dubbio le proprie identità.
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Sempre più membri della Generazione Z si stanno affacciando sul mondo del lavoro e l’attenzione crescente verso la salute mentale e il benessere soprattutto psichico sembra stia nascendo anche grazie al loro avvento nelle organizzazioni.
Secondo le statistiche, infatti, la Gen Z concepisce il lavoro in modo diverso rispetto alle precedenti generazioni: i giovani lavoratori, oggi, non sono più disposti ad accettare organizzazioni autoritarie, orari di lavoro troppo pesanti o mancanza di flessibilità all’interno di un’organizzazione.
Inoltre, dopo essere stati isolati negli anni della pandemia, una delle maggiori difficoltà per la nuova generazione di professionisti è rappresentata dalla gestione dei legami interpersonali e dalle relazioni sul posto di lavoro.
Per i datori di lavoro, accogliere queste esigenze può diventare sempre più importante: i giovani lavoratori, infatti, hanno sempre più necessità che un’organizzazione li comprenda come individui più ancora che come semplice forza lavoro.
Perseguire gli obiettivi del benessere psico-fisico, però, non significa porre attenzione solo sugli aspetti di prevenzione della salute mentale, della gestione dello stress ma, in maniera più olistica ed “ergonomica” considerare i temi del benessere familiare, della personalizzazione del workplace e delle forme equilibrate ed ibride di smartworking.
Un errore comune può essere quello di fare del benessere una forma di lavoro in più per i propri lavoratori.
Ospitare sessioni di yoga o all’ora di pranzo o di mindfulness dopo il lavoro, che si aggiungono alle già traboccanti to do list non risolve di certo il problema, anzi lo amplifica e può rendere tutto anche più frustrante.
Avere una cultura del benessere nell’organizzazione significa soprattutto cercare modi di rendere le attività lavorative quotidiane più incentrate sul wellbeing, magari costruendo una cultura delle riunioni più sana, gestendo meglio gli aspetti della comunicazione asincrona e così via.
La “sicurezza psicologica”, inoltre, è un paradigma che non può essere dimenticato in quest’ottica e che riguarda trasversalmente tutte le generazioni.
Si tratta della percezione condivisa dai membri di un team secondo cui una persona non viene punita o umiliata per aver parlato esprimendo idee, domande, preoccupazioni o errori. Non nasce spontaneamente, è una condizione che deve essere costruita con azioni consapevoli e il primo passo è creare un senso di belonging: le persone devono sentirsi accettate per essere in grado di contribuire pienamente al miglioramento dell’organizzazione in cui lavorano.
Questo significa sentirsi liberi di essere sé stessi ed essere accettati così per come siamo; avere la possibilità di apprendere e crescere facendo domande, dando e ricevendo feedback, sperimentando e facendo errori; mettere a frutto realmente le proprie competenze per dare il proprio contributo; poter parlare e sfidare lo status quo quando c’è opportunità di crescita e miglioramento.
Accanto a questi aspetti non va dimenticato tutto ciò che concerne la salvaguardia del benessere digitale.
Una nuova mentalità, improntata alla crescita e allo sviluppo di sane abitudini digitali, dovrebbe infatti abbracciare il lavoro ibrido, adattandolo con trasparenza e coerenza con i valori e lo scopo dell’organizzazione.
Anche gli impatti negativi dei burnout si possono ridurre incorporando e abbracciando i principi del benessere digitale, creando la giusta cultura digitale modellata sulle necessità di ogni singola realtà aziendale.
Il digital wellbeing è quindi una strategia: il benessere al lavoro può e deve essere raggiunto anche nel mondo del digitale.
È il modo per far sì che l’inevitabile transizione verso un mondo sempre più digitale sia chiara, trasparente, rivolta alla comprensione e all’equilibrio. Il digital wellbeing è anche una competenza. Come sottolinea Alessio Carciofi, si può intendere il digital wellbeing come l’insieme delle pratiche, dei comportamenti e delle decisioni che riguardano i propri collaboratori e l’uso che essi fanno della tecnologia. Non riguarda semplicemente il “digital detox”, ovvero evitare la tecnologia o scollegarsi dal digitale per determinati periodi di tempo.
Si tratta di un modo olistico di pensare a come, quando, dove e perché si sta interagendo con la tecnologia e quali potrebbero essere gli effetti di tali scelte su altri aspetti della salute.
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La relazione tra wellbeing ed engagement dei dipendenti
Nel raggiungimento del benessere al lavoro, esiste una relazione stretta tra wellbeing ed engagement, poiché il coinvolgimento è un grande trigger per il career wellbeing, ma abbiamo visto come un’azienda non può occuparsi di come far crescere l’engagement senza tenere in considerazione tutti gli aspetti del wellbeing delle proprie persone.
In assenza di un buon lavoro e di una carriera soddisfacente, non c’è wellbeing e quando le organizzazioni metto in pratica azioni e programmi volti ad aumentare sia il wellbeing sia l’engagement, gli effetti si moltiplicano e sono reciprocamente vantaggiosi sia per i dipendenti, sia per i risultati aziendali.
Tutto ciò che riguarda il benessere psico-fisico e digitale è strettamente connesso ai temi della vitalità al lavoro, poiché comprendono gli aspetti dell’energia, del vigore e della salute della persona. Ma per sviluppare appieno il wellbeing degli individui è fondamentale fare riferimento a quelle dimensioni che Martin Seligman racchiude nel suo modello PERMA di “psicologia positiva” come la capacità di sperimentare emozioni positive, di coinvolgimento verso gli obiettivi, di percepire la sensazione di crescita e di progresso, così come la costruzione di relazioni autentiche, di senso di comunità e la chiarezza verso il senso e lo scopo che sono relative agli aspetti valoriali sul lavoro.
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Benessere al lavoro: economico finanziario
In questa esplorazione del benessere al lavoro non possono sfuggire alcuni aspetti fondamentali, come ad esempio il benessere sotto il profilo finanziario.
Gli ultimi anni hanno visto sfide globali senza precedenti sotto forma della pandemia, seguite da una “grande rassegnazione” e prezzi in forte aumento, spinti dai problemi della catena di approvvigionamento globale e dalla guerra in Ucraina.
L’impatto ha colpito le famiglie di tutto il mondo. Una ricerca del CIPD ha rilevato che in UK oltre un quarto dei dipendenti afferma che le preoccupazioni legate al denaro influiscono sulla loro capacità di svolgere il proprio lavoro.
Questo sale a quasi un terzo che afferma che le preoccupazioni finanziarie sul costo della vita hanno avuto un impatto negativo sulla loro produttività. Mentre sempre più datori di lavoro stanno diventando consapevoli e stanno riconoscendo che il benessere finanziario è molto più che pagare i dipendenti e fornire alcuni vantaggi, è ancora l’area meno comune inclusa nelle strategie di benessere delle risorse umane.
Sostenere programmi di educazione finanziaria, per tutte le età della popolazione aziendale è una buona scelta per rendere più sereni e più consapevoli le persone che lavorano nell’organizzazione, magari strizzando l’occhio alle strategie di new longevity economy che permettono di gestire i cicli di vita delle persone al lavoro in maniera innovativa e più consapevole degli effetti che l’aumento dell’aspettativa di vita e la demografia stanno creando nel mercato del lavoro.
Il benessere al lavoro rispetto alle età
Come innescare meccanismi di inclusione generazionale nelle strategie di wellbeing e quali sono le modalità con cui renderlo effettivo nello scenario culturale dell’organizzazione?
Può essere interessante partire dalle strategie di engagement familiare e alle politiche aziendali di conciliazione lavoro-famiglia per immaginare un paragone più pratico.
Ad esempio, le imprese che erogano un congedo parentale retribuito, ottengono quasi un raddoppio degli utili, dal momento in cui forniscono ai dipendenti-genitori le risorse necessarie per conciliare lavoro e vita privata. Si tratta di risultati supportati dalla Social Exchange Theory, che suggerisce che i lavoratori si sentano in un certo senso “obbligati” a restituire il favore ai datori di lavoro in termini di impegno e dedizione quando vengono ricompensati con benefici aggiuntivi come, ad esempio, il sostegno alla genitorialità.
Come il modello work-life fit tiene conto delle diverse esigenze culturali della famiglia, può essere presa in considerazione, in maniera più estesa, tale cura del benefit individuale ponendo attenzione a pesi specifici intergenerazionali, in particolare nelle politiche di welfare e people care.
Pe quanto riguarda le nuove generazioni, ad esempio, sempre secondo il Rapporto Welfare Index PMI del 2022, la presenza di giovani con meno di 30 anni, mediamente del 20%, è correlata al livello di welfare: da una quota del 18% nelle aziende a livello di welfare iniziale ad una del 22,1% in quelle con livello molto alto.
Molte aziende italiane (quasi il 30%), non hanno alcun giovane tra i propri collaboratori, ma questa quota scende al 18% tra le imprese con un livello elevato di welfare aziendale.
Più che la composizione demografica per fasce di età, ciò che conta maggiormente è l’impatto del welfare aziendale sull’accesso dei giovani al lavoro.
Le imprese con livello di welfare elevato mostrano una propensione molto più alta della media all’assunzione di stagisti e alla trasformazione degli stage in lavoro stabile. Le aziende con livello di welfare molto alto hanno una quota di stagisti pari al 4,1% degli addetti (il doppio di quelle a livello iniziale), e una quota di assunzioni del 40,7%, contro il 19,6% delle aziende a livello di welfare iniziale.
Non solo le imprese con elevato livello di welfare contribuiscono molto più della media alla crescita dell’occupazione, perché i motivi che spingono le organizzazioni (di grandi dimensioni ma non solo) ad attuare iniziative di welfare, come è facile immaginare, sono volti principalmente a migliorare la soddisfazione dei lavoratori e il clima aziendale ma allo stesso tempo a incentivare la produttività del lavoro
Il “marketing mix” di una strategia di welfare & people care rivolta ai clienti interni dell’organizzazione rappresenta allora una prima fotografia chiara di come siano contemplate le politiche di inclusione generazionale, a partire da quanto i benefit siano ben disegnati sui profili di popolazione aziendale presente (e futura), ma soprattutto comunicati efficacemente all’interno ma anche all’esterno del perimetro aziendale.
Far sapere ai propri dipendenti quali sono le prospettive di benefit anche per le altre popolazioni, può innescare delle percezioni virtuose in termini di aspettativa: “quando sarò genitore o quando sarò senior l’azienda avrà cura di me attraverso questi strumenti” e di fidelizzazione verso il brand.
Ripensare la “welfare & wellness strategy” significa anche ridisegnare e rimescolare l’insieme dei benefit accessori (come i fringe benefit) solitamente aggiunti alla retribuzione ordinaria, con la retribuzione complementare (i “flexible benefit”), magari provando a coinvolgere nell’analisi e nel design thinking, gruppi intergenerazionali di senior e junior che possano cogliere efficacemente le leve di coinvolgimento più attuali e le necessità precipue che hanno a che fare con un benessere concreto dei dipendenti.
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Strategie di corporate wellbeing: verso il management dell’eudaimonìa e del benessere al lavoro
Quando parliamo di corporate wellbeing dobbiamo immaginare non solo aiutare le persone a cambiare le loro azioni o abitudini, ma a cambiare completamente il modo in cui si approcciano alla loro realtà di riferimento. Bisogna imparare a osservare con occhi diversi il mondo del lavoro e gli input di cui disponiamo per migliorare il contesto lavorativo.
Quali sono gli elementi da considerare nel disegno di una strategia di corporate wellbeing?
Virtualmente tantissimi, e questo può rendere tutto più dispersivo, poiché ci si ritrova spesso con un bouquet frammentato di iniziative singolarmente molto interessanti ma a volte poco percepite e incapaci di portare un reale impatto complessivo.
Esistono già da anni sperimentazioni che vedono affiorare le figure dei Chief Happiness Officer che puntano ad occuparsi della “gestione della felicità” in azienda in maniera più completa, con l’obiettivo di migliorare i risultati aziendali (secondo Forbes e Harvard Business Review il costo di un dipendente infelice è stimato a circa 16k euro all’anno tra minore produttività e spese sanitarie), ridurre gli episodi di malattia e gli indici di turnover, far sì che le persone si relazionino positivamente, si sentano felici e ottengano risultati individuali e collettivi che superino le aspettative di budget.
Ma anche alimentare una cultura positiva e valori di rispetto, inclusività e coerenza, non solo a favore dei dipendenti, ma anche dei clienti e degli altri stakeholder.
Quello che lascia sbigottiti in questo momento storico è il campanello di allarme intergenerazionale che sottolinea quanto ogni individuo veda sempre meno riconosciuti i propri meriti all’interno del contesto di lavoro, così come il senso di appartenenza che viene sempre di più a mancare.
Minando inevitabilmente la “felicità” professionale.
Non vedendo più riconosciuto l’impegno nel proprio lavoro si tende a non riconoscersi più all’interno del contesto aziendale, e in questa situazione tutte le generazioni sono concordi nel dimostrare che nel sistema lavorativo italiano qualcosa non stia funzionando.
Persino un Baby Boomer su 4 (24,1%) a un passo dalla pensione, dimostra di voler cambiare il proprio impiego per gli ultimi anni professionali (era il 17,9% nel 2022), come segnala l’Osservatorio BenEssere Felicità.
Per questo è sempre più importante considerare una strategia organica affiancata ad una lente dell’age inclusion nella predisposizione e nello sviluppo delle strategie di corporate wellbeing.
Solitamente ci si chiede se sia corretto parlare di felicità, piuttosto che di serenità al lavoro. Si tratta di due costrutti che caratterizzano uno stato dell’essere, ma forse dobbiamo chiederci se l’obiettivo organizzativo è quello della gioia, dello stato di calma o del benessere personale in senso più stretto.
C’è senz’altro bisogno di lasciare più spazio a sentimenti, emozioni, azioni e diversità di pensiero, partecipazione attiva, spirito di comunità e senso di leadership. C’è bisogno di ridare senso e fiducia al lavoro, cosicché i bisogni primari di tipo economico e di salute possano essere garantiti in egual misura con quelli di autorealizzazione
L’eudemonia (o, più fedelmente al greco, εὐδαιμονία – eudaimonìa) non è la semplice felicità.
È la felicità intesa come scopo della vita, e come fondamento dell’etica. In altri termini è una felicità a cui viene dato un ruolo preciso nell’indirizzare la propria condotta, senza rimanere una condizione così contingente che cambia repentinamente nel tempo. Ritroviamo sempre una certa tensione, nel bene e nel male, nell’eudemonia: dopotutto, il senso più bello di questa parola risiede nella sua etimologia: l’eudemonia è l’essere posseduti dal “buon demone”.
Riformulare il benessere al lavoro come scopo di vita e benessere costante diventa allora la chiave per immaginare le organizzazioni del presente e del futuro.
E la ricetta non è tanto nel dualismo work/life ma nell’equilibrio tra serenità e felicità, tra benessere e fattibilità. Come scrisse Schopenhauer in una raccolta di pensieri sulla felicità (che comunque riteneva un “eufemismo”):
“Viviamo il presente. Il meglio che il mondo ci può offrire è un presente quieto e senza dolore. Non guastiamo questo con la ricerca di un futuro sempre incerto che per quanto lottiamo rimarrà sempre nelle mani del destino.
Il possesso e il suo desiderio determinano l’infelicità. La ricchezza assomiglia all’acqua di mare; quanta più se ne beve, tanto più si ha sete.
Fondamentale, infine, la differenza fra ‘ciò che si è’ e ‘ciò che si ha’, perché è il primo che determina il secondo e non viceversa.
Non viviamo come vogliamo ma come possiamo.
La giusta proporzione è la saggezza per vivere quieti per questo dobbiamo vivere in modo giusto tanto il presente quanto il futuro…e attenzione che vive troppo il presente è uno sconsiderato e chi troppo il futuro non avrà più solo un istante tranquillo”
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