Fino a due anni fa, in Italia, l’82% dei dipendenti lavorava in ufficio, il 12% in modalità ibrida, il 6% da remoto. Il lavoro flessibile non faceva parte dei piani aziendali.
Secondo le ultime indagini Randstad nel 2021 siamo passati al 32% di lavoratori in ufficio, 31% in modalità ibrida e 38% da remoto. L’86% delle aziende ha confermato la modalità a distanza nel 2021 e due terzi lo farà in futuro con un mix tra presenza e remoto. Mediamente, oggi lavora in modalità “agile” il 54% della forza lavoro per 2,5 giorni a settimana.
Sette aziende su dieci (71%), inoltre, hanno progettato di consentire un pieno ritorno in ufficio su base volontaria entro la fine dell’anno, mentre il 47% non sono ancora sicure di quando termineranno i protocolli anti-COVID e solo un 10% prevede di fermarli prima del 2022.
Questi i trend secondo Willis Towers Watson, che prevede che nei prossimi anni solo due dipendenti su cinque lavoreranno in azienda: nel dettaglio il 42% in presenza, il 35% in modalità ibrida e il 23% da remoto.
La modalità ibrida e di lavoro flessibile, ovvero sia da remoto sia in presenza, tra due anni resterà comunque più diffusa di quella completamente a distanza. In questi mesi sta iniziando un riassestamento della percentuale di dipendenti che lavorano solo da remoto (tra due anni scenderanno dal 38% al 23%), mentre stanno aumentando di contro quelli che lavorano in presenza (tra due anni saliranno dal 32% al 42%) e in modalità ibrida (dal 31% al 35%).
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In uno studio americano segnalato dal World Economic Forum, alcuni ricercatori stimano che la forza lavoro ibrida aumenterà la produttività nell’economia post-pandemia del 4,6%. La maggior parte di tale guadagno verrà da una riduzione del tempo di spostamento.
In questo sondaggio meno del 30% degli intervistati afferma che tornerà completamente alle attività pre-COVID; il resto rimane diffidente nei confronti dei trasporti di massa, degli ascensori affollati e dei pasti al chiuso.
Lo studio prevede che, nel complesso, il 20% delle giornate lavorative complete sarà eseguito da casa dopo la fine della pandemia. Il lavoro a distanza è fattibile per metà dei dipendenti e il piano aziendale tipico prevede che quella metà trascorra due giorni – il 40% – della settimana lavorativa a casa.
Il management aziendale segnala la volontà di avere i dipendenti in loco almeno tre giorni alla settimana per motivi che mettono in gioco la motivazione, la collaborazione e la cultura del posto di lavoro. “Per la maggior parte dei lavoratori, l’economia post-pandemia comporterà più WFH [Work From Home] rispetto all’economia pre-COVID, ma notevolmente meno di quanto vorrebbero”.
Come afferma Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano «Lo smart working è una tendenza ormai inarrestabile. Nei prossimi mesi, tuttavia, assisteremo a dinamiche differenziate tra grandi imprese, PMI e PA. Nelle grandi imprese si andrà verso un consolidamento e un’estensione del lavoro agile, con modelli che prevedranno un equilibrio tra lavoro in presenza e in ufficio che lascerà un forte livello di flessibilità ai lavoratori».
Il dibattito e le strategie su come applicare i “Nuovi Modi di Lavorare” sono all’ordine del giorno su tutti i tavoli aziendali.
Di piccole e grandi imprese. Il cigno nero pandemico ha inevitabilmente messo alla luce l’importanza del come lavorare. E interrogarsi sui processi, sugli stili e sugli strumenti è un esercizio oneroso, che si accompagna all’inevitabile attenzione al COSA, ovvero gli obiettivi di performance economica e produttiva da raggiungere.
Lavoro flessibile tra Smart working, Remote Working, Home Working, Telelavoro ed Hybrid Working
Mentre sperimentiamo uno status ibrido organizzativo, in questi mesi si vivono paradossi e situazioni surreali: negli uffici dove si dovrebbe stare insieme, spesso si continua ad essere isolati tra una videocall e l’altra; abbiamo acquisito la conoscenza di numerosi strumenti digitali che dovrebbero permetterci una giornata di lavoro più duttile, ma non siamo mai stati così poco “smart” (se non addirittura al limite del burnout digitale); a livello emotivo lo stato di estenuazione e abbattimento fisico e psichico dovuto al periodo di emergenza che abbiamo vissuto si traduce in rilassamento e in un “languore” soprattutto sul piano professionale; non stiamo coinvolgendo le nuove generazioni nel confronto con i senior nel formulare gli stili di lavoro del futuro.
Non possiamo biasimare del tutto le decisioni manageriali di questo periodo, in fondo ci troviamo in una piena e nuova rivoluzione del lavoro e ce ne sarà ancora per molto.
Il periodo è sperimentale, e necessariamente si andrà per tentativi (si spera iterativi e incrementali), di innovazione.
L’evoluzione del lavoro a distanza
Nel guardare a questa evoluzione, purtroppo, molti sono vittime delle etichette mediatiche che vengono attribuite allo “smart working”, confuso sprovvedutamente con l’“home working”, il “telelavoro” o il “remote working”, che sono state le effettive modalità di lavoro sperimentate durante la pandemia.
Senza essere pedissequi è bene ricordare in ogni occasione la traduzione italiana che viene fatta di questo termine, soprattutto in termini legislativi (già prima del Covid-19):“Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.
In questa giungla terminologica la speranza è che ci sia la possibilità di recuperare la dimensione vera dello smart working, per la quale si impara ad essere nel posto migliore in cui poter raggiungere i risultati oppure, nel caso in cui dobbiamo prevalgono altri interessi (come, ad esempio, il work-life balance) si impara a lavorare al meglio nella condizione in cui ci si trova.
Il nodo cruciale dell’applicazione del lavoro flessibile e agile non può passare solo per i vincoli orari e spaziali su cui tutti ci siamo fissati per inevitabili motivi tecnici, normativi o sindacali.
Il cuore del problema è sulla riformulazione di “fasi, cicli e obiettivi”: perché ci siamo accorti che lavorare “a distanza” ottimizza e semplifica alcune cose, ma ne inficia altre; perché incontrarsi fisicamente contribuisce alla creatività, forse alla motivazione, e di certo alla cultura aziendale, al senso di appartenenza e, probabilmente al perché lavorare presso un brand anziché un altro.
La grande scommessa allora per le aziende e il management è quella di mettere mano ai processi di lavoro: alcuni cristallizzati da decenni e semplicemente riconfermati negli audit di qualità di anno, in anno; altri più avanzati e già declinati nei team di lavoro ma tutti da rodare e migliorare alla luce delle difficoltà tecniche oggettive, o delle resistenze al cambiamento delle popolazioni aziendali.
Oppure no?
Può essere una strategia innescare una restaurazione dei processi consolidati e ben rodati del 2019? Magari anche solo per far respirare ai dipendenti il “ritorno alla normalità”, il conforto delle routine di una volta.
Sarebbe possibile privilegiare la sicurezza psicologica della propria popolazione aziendale e la cura di quei collaboratori che trovano nel lavoro “rifugio” dalle difficoltà di gestione familiare; oppure maggiore focus favorito dal workplace (anziché dallo strapuntino ricavato in un angolo di casa, sollecitati continuamente dalle faccende domestiche) e anche maggiore tempo per sé (magari proprio nel tragitto casa-lavoro).
Non possono esserci risposte univoche per tutte le aziende e per tutti i gruppi di lavoro. In ogni azienda ci sono persone disorientate dall’idea di non avere più una propria scrivania con i propri talismani, o intimorite dal dover prenotare tramite app una postazione di lavoro nel proprio headquarter in cui si sono recati per 20 anni, ed entusiasti del “full remote” che non metterebbero mai più piede in quel luogo, se non per cause di forza maggiore.
Lavoro flessibile: il south working e il nuovo rinascimento del nomadismo digitale
Sono comunque molte le persone che riportano un senso di gratificazione e soddisfazione all’idea che potranno anche in futuro gestire parte della loro attività lavorativa non in sede: la combinazione di flessibilità oraria e flessibilità “geografica” fa sentire meglio le persone, almeno sulla carta. Ma perché?
C’è un’idea sottesa di libertà e di personalizzazione nel lavoro flessibile: poter scegliere in autonomia, avere capacità decisionale nel poter scegliere di volta, in volta il contesto privilegiato per portare a termine un compito o un progetto, o attribuzione di responsabilità e fiducia nell’altro.
Non è un caso che per i dipendenti aziendali alcune riflessioni si siano coagulate sull’idea del lavoro non necessariamente in uffici incardinati in zone urbane (nel nostro Paese storicamente nel Nord Italia).
Stiamo parlando del south working, un lavorare delocalizzato per aziende del Nord o comunque di tutto il mondo; prevalentemente al Sud o, come è avvenuto per molti nelle “seconde case” al mare, in montagna o dai parenti in provincia. Un’idea che implica a livello di sviluppo sociale una rinascita dei borghi e delle provincie soprattutto nel Meridione, e dove le difficoltà del lavoro da remoto si equilibrano con un minore costo e una maggiore qualità della vita.
Con questo approccio si prefigura un mercato del lavoro molto più inclusivo quello che trasmette offerte di lavoro “100% anywhere” soprattutto per i giovani che spesso non hanno la possibilità di trasferirsi nelle grandi città.
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Ma dietro l’idea del southworking è ben radicata una filosofia molto attuale: adattare la professione al proprio stile di vita, e non il contrario.
La community dei Nomadi Digitali lo ha previsto già da dieci anni quanto il modello sano e sostenibile di lavoro sia collegato a godere di maggiore libertà nella gestione del tempo e di avere la possibilità di spostarsi secondo le proprie necessità.
Le ragioni che oggi spingono le persone al “nomadismo digitale” sono molteplici, e si tratta di una tendenza crescente non solo tra i giovani, anzi.
Come emerge dal “Primo Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italia”, anche nel nostro Paese il fenomeno nomadi digitali sta assumendo dimensioni considerevoli e non incontra più solo l’entusiasmo dei giovani “millennials” che vogliono girare il mondo come backpackers, con lo zaino sulle spalle. Questo stile di vita e di lavoro è sempre più ambito da persone di tutte le età, con esperienze professionali differenti, ma soprattutto da una forte prevalenza di donne (54% contro il 46 degli uomini) che in questo modo riescono a gestire meglio il work-life balance.
Non sono solo nerd e travel blogger: tra gli amanti del lavoro flessibile sono in crescita anche professionalità che operano in settori come l’architettura, il servizio clienti, l’eCommerce, le risorse umane, oltre agli storici ambiti informatici e di comunicazione digitale.
A definirsi “nomadi digitali” sono soprattutto i freelance e i liberi professionisti (il 41% degli intervistati), ma non sono da meno anche i lavoratori dipendenti (38%), mentre una percentuale più ridotta è quella rappresentata dagli imprenditori (8%).
Colpisce tra i dati che la motivazione che spinge i più giovani a diventare nomadi digitali è la possibilità di muoversi liberamente nello spazio, mentre tra gli adulti prevale la maggiore flessibilità nella gestione del tempo.
Dalla ricerca emerge che le persone interessate al lavoro flessibile e al nomadismo digitale mostrano di aver assunto, anche a seguito della maggiore esperienza di remote working accumulata durante la pandemia, una marcata e diffusa consapevolezza che questo nuovo stile deve essere sostenuto anche da un cambiamento culturale nel mondo delle imprese.
La Great Resignation e la fuga dall’azienda verso il lavoro flessibile
Ma che succede se i desideri di nomadismo digitale collidono con le politiche di smart working che i datori di lavoro non stanno adottando, preferendo un ritorno all’ “Old Normal” del 2019 senza valutare forme di lavoro flessibile?
Quanto conta lo smart working e la riformulazione dei processi verso il lavoro flessibile con la Great Resignation?
Tra aprile e giugno di questo anno ci sono state 484mila dimissioni, in crescita dell’85% rispetto al 2020. Il numero di rapporti di lavoro dipendente cessati per dimissioni del lavoratore è in forte aumento, sia rispetto al trimestre precedente sia rispetto agli anni passati. E nel mondo del lavoro ci si inizia a chiedere se in questa “grande rassegnazione”, sicuramente accelerata dall’esperienza pandemica, sia implicata anche l’esperienza frustrante del lavoro da remoto “forzato” degli ultimi tempi.
Oltre alle dinamiche di tipo economico (come la crisi di alcuni settori come il turismo e la ristorazione che hanno costretto molti a migrare verso settori in crescita come il green, il digitale e la salute), l’eterno tema delle retribuzioni troppo basse rispetto ad altri Paesi Europei e gli effetti della Yolo Economy (con un’impennata di oltre 14o.000 aperture di P.IVA nel nostro Paese nel secondo trimestre 2021 – che riguardano giovani fino ai 35 anni) il tema del come tornare a lavorare incide e non poco su questi effetti.
Il World trade Index 2021 di Microsoft ha rilevato che più del 33% della forza lavoro globale intendeva lasciare il proprio datore di lavoro attuale entro il 2021 e il 38% prevedeva di trasferirsi cogliendo l’opportunità di lavorare da remoto. Valori più alti tra i Gen Z che addirittura in un caso su due hanno valutato seriamente la possibilità di lasciare i propri datori di lavoro.
Un altro fattore che potrebbe spiegare il trend in crescita delle dimissioni è quindi la fine dello smart working per 1,5 milioni di dipendenti: 800mila privati già tornati in presenza al 100% e 700mila dipendenti statali.
Le stime dell’Osservatorio sul lavoro agile del Politecnico di Milano segnalano per circa 4 milioni di lavoratori la volontà delle aziende di consolidare la modalità di lavoro ibrida. Emerge comunque che l’84% delle persone punta al lavoro agile e oltre il 50% lo vorrebbe per più di 3 giorni alla settimana. In moltissimi dichiarano che la qualità della vita è migliorata e che questa esperienza ha permesso loro di acquisire nuove competenze.
Secondo questa analisi, lo smart working rimarrà o sarà introdotto nell’89% delle grandi aziende, dove aumenteranno sia i progetti strutturati sia quelli informali; nel 62% delle PA, in cui prevalgono le iniziative strutturate ma anche molta incertezza sul futuro e nel 35% delle PMI, fra cui prevale un approccio informale ed è però forte la tendenza a tornare indietro.
È bene ricordare che sebbene molti lavoratori di età e provenienze demografiche diverse esprimano il desiderio di continuare a lavorare da casa, i lavoratori altamente istruiti e ad alto reddito avranno un’opportunità molto maggiore di farlo.
Agile Working e nuove generazioni
Lo smart working sembra allora essere diventato più una leva per la retention delle persone in azienda, mentre sembrava essere solo una leva di attraction per i nuovi talenti nel 2019, laddove il lavoro flessibile rappresentava un fattore «determinante» per la scelta del lavoro “solo” per il 62% dei candidati.
Secondo un’ultima ricerca di Radical HR Club, su 600 HR Manager sembrano esserci dati confortanti rispetto al fatto che il 90% delle aziende rispondenti fa Smart Working, dando in alcuni casi anche piena libertà e autonomia nella scelta e 7 HR su 10 hanno guidato questa trasformazione nell’organizzazione.
Rimane ancora una fetta importante di aziende in cui la leadership è ancorata a vecchi schemi di pensiero e diverse aziende iniziano a perdere talenti per la mancanza di fiducia nelle persone.
Come abbiamo visto, la possibilità di avere spazio geografico e flessibilità di tempo per la conciliazione lavoro-vita personale è un fattore determinante per tutte le generazioni.
Non è possibile immaginare un New Way of Working senza coinvolgere tutte le generazioni nel disegno di quello che sembra essere davvero una nuova rivoluzione del lavoro. Fruire nel pieno benessere dei luoghi e degli stili di lavoro nel futuro, rinnovare il concetto di workplace, ma soprattutto rendere efficaci ed efficienti i tanti strumenti digitali che abbiamo a disposizione, (senza dimenticare quelli analogici).
Le forme di lavoro ibride verso le quali ci si sta dirigendo, suggeriscono un modo di lavorare più umano e più armonioso con la nostra vita personale e professionale. Il mindset più efficace è quello in cui i dipendenti vengono trattati da adulti di cui fidarsi e non come individui da controllare. Le aziende devono fidarsi delle loro persone.
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Come in tutti i fenomeni sociali, però, la popolazione aziendale tenderà a disporsi su una curva gaussiana, dove ci sarà un quinto di estremisti del “full remote” e un’altra di “conservatori” che vorrebbero ritornare alle modalità che abbiamo utilizzato fino al 2019. Come fare per implementare correttamente lo smart working, comprendendo tutte i valori e le istanze generazionali?
Rimane importante conoscere da vicino i processi di lavoro delle persone che collaborano nell’organizzazione, perché non è detto che una policy di giorni/periodi/ore di smart working vada bene per tutti nello stesso modo.
È fondamentale valutare il valore aggiunto della presenza fisica per ogni singola attività, a livello di funzioni, di sedi e di team. Con una stima (e perché no, un’autovalutazione bottom-up che coinvolga tutte le generazioni) sarà possibile distinguere le attività eseguibili in full-remote da quelle in presenza, così come la possibilità alle persone di auto-organizzarsi in base ai task settimanali.
Contemporaneamente sarà necessario lavorare sui gap che innesca il lavoro ibrido o remoto, rispetto al senso di appartenenza con il brand, di collaborazione e apprendimento reciproco.
Il lavoro agile nel pieno senso del termine non può non piacere che a tutte le generazioni. Lavorare per obiettivi condivisi, autodeterminati nei gruppi, col giusto work-life balance, tramite una leadership attuale è il sogno di chiunque lavori in azienda.
Il remote working è ben altro: la predisposizione alla mentalità digitale (non necessariamente abilità) da parte dei giovani implica una predisposizione maggiore a lavorare in una forma ibrida, poiché vicina alla cultura della scelta e della personalizzazione continua a cui sono stati esposti da sempre.
Questo non significa necessariamente prediligere un “full remote”, se non per alcune specifiche figure (solitamente digitali per cui è quasi naturale considerare il “datore di lavoro” come un “datore di stipendio”, indipendentemente dal brand).
Vivere senza socialità e senza momenti di creazione condivisa può isolare fortemente i “newbie”, così come le generazioni più senior.
Per X Gen e Boomers la questione è segnante perché implica il superamento di modelli mentali acquisiti, di fare fronte a gap tecnologici e di autogestione del proprio lavoro. Forse più di altre urgenze, quella dello smart working va coordinata nell’ottica dell’age inclusion, tentando il métissage delle prospettive generazionali diverse puntando all’obiettivo comune del lavoro sereno, adattivo e probabilmente ibrido.
Senza un ripensamento in termini di competenze e processi manageriali non può essere risolta la questione del tempo: è consapevolezza di tutte le generazioni che nel post-pandemia questa sia diventata la risorsa più importante, nel, e per il lavoro.
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