Dal 31 marzo 2023, il valore di mercato di Anheuser-Busch è sceso di 18 miliardi di capitalizzazione.
Secondo quanto riferito da alcuni distributori, Bud Light adesso costa meno dell’acqua.
Intervistato dal New York Times, Andy Wagner, direttore del magazzino Beer & Soda di Glenn Miller a Lemoyne (Pennsylvania), ha detto che Bud Light ha commesso un errore quando il suo marketing ha infranto quella che ha definito “la regola aurea del bar”, ovvero: “niente politica, niente religione”.
Il 4 luglio è stata la giornata nera del marchio, con imbarazzanti scaffali pieni in tutti gli Stati Uniti, a fronte di un boom dei competitor: i manager di Molson Coors, colosso industriale proprietario dei marchi Coors Light e Miller Lite, erano preoccupati di non riuscire a soddisfare l’enorme domanda in arrivo.
Brand Activism o marketing sbagliato?
Cosa è successo a uno dei marchi di birra più iconici degli States?
Alcuni membri del team marketing dell’azienda hanno pensato fosse una buona idea quella di stringere una partnership con Dylan Mulvaney, popolarissima influencer trans da 12 milioni di follower tra Tik Tok e Instagram.
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Mulvaney è apparsa su una lattina di Budweiser e ha girato un video sui social bevendo una birra in una vasca piena di schiuma.
I consumatori di Bud Light hanno così iniziato una campagna di boicottaggio del prodotto che è cominciata in rete ma ha finito per coinvolgere ogni bar e supermercato del Paese.
Ovviamente, il crollo di Bud Light non riguarda solo le azioni del gruppo ma si è ripercosso su migliaia di lavoratori che ogni giorno che producono, imbottigliano, distribuiscono e vendono il marchio.
Budweiser, nel disperato tentativo di porre rimedio al danno d’immagine, ha prodotto uno spot che mostra i valori originari del brand. Una mossa ovviamente tardiva che ha scaldato ulteriormente gli animi di un pubblico già estremamente polarizzato.
Alienare la propria base di consumatori
Non tutti i posizionamenti sono adatti a tutti e il mercato, prima o poi chiede il conto.
Perché molte aziende, specialmente negli Stati Uniti, sembrano aver deciso di alienare la propria base di consumatori?
Il caso Bud Light non è certo isolato: il brand activism, quando è fatto senza tenere a mente i gusti e le idee del proprio target di consumatori, sempre più spesso incappa in scivoloni che danneggiano notevolmente il conto finanziario delle aziende.
Una storia che ribadisce l’ovvio: non tutti i posizionamenti sono giusti per tutti.
Si pensi ad esempio a Disney con i recenti flop di “Strange World” e “La Sirenetta”, che si aggiunge al crollo dello streaming. Perfino le file nei parchi a tema sembrano essersi ridotte notevolmente.
Nonostante il CEO Bob Chapek fosse stato rimosso dopo la trimestrale disastrosa del 2022, la nuova dirigenza non sembra avere scelto di discostarsi dalla precedente gestione, prova ne è la prossima release del già criticatissimo “Biancaneve”.
Il risultato è che il titolo in borsa è ai minimi dal lontano 2014.
La catena di supermercati Target , dal primo febbraio a oggi, ha perso la cifra monstre di 22 miliardi di capitalizzazione, a seguito al boicottaggio dei consumatori contro la scelta di vendere costumi transgender e abbigliamento da bambini a tema “pride”.
L’azienda è stata costretta a tornare sui propri passi ritirando dagli scaffali molti dei prodotti al centro della polemica.
I casi appena elencati sono figli di alcune scelte di brand activism errate che hanno insistito nel cavalcare alcuni temi del momento senza considerare il proprio posizionamento di prodotto e i valori dei consumatori.
Celebre la battuta ironica, ormai datata, di Michael Jordan: “Anche i repubblicani comprano scarpe da ginnastica“, recentemente ritornata al centro delle polemiche.
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Perché alcune scelte dei marketing manager seguono la pancia e non i dati
La spiegazione è complessa e, con tutta probabilità, ha molto a che fare con le echo chamber.
Per “camera dell’eco” si intende quel fenomeno sociale in cui un gruppo di persone, online o offline, è esposto a informazioni, notizie, idee e letture della realtà congeniali alle proprie convinzioni preesistenti.
Insomma, opinioni che ci piacciono espresse da gente a cui siamo legati da simpatia, affetto, stima o amicizia.
L’eco di queste opinioni è amplificato dagli algoritmi dei social ed è impermeabile a voci dissonanti e, purtroppo, anche a un dialogo.
La conseguenza del proliferare delle echo chamber è naturalmente la polarizzazione degli utenti, consumatori o cittadini elettori, a seconda del contesto in cui questa “bolla informativa” è collocata.
La polarizzazione è un fenomeno tipico ma non peculiare della nostra epoca, la cui fama è tornata in auge grazie agli algoritmi dei social.
Le piattaforme come Facebook, Instagram TikTok ed altre mostrano a ciascun utente i contenuti più adatti non solo ai propri gusti in fatto di prodotti o servizi ma anche più aderenti alle proprie credenze, valori e ideologie.
Il modello di business dei social, che si basa sulla vendita della pubblicità, ha tutto l’interesse a far rimanere il più possibile le persone all’interno delle piattaforme; la polarizzazione viene premiata perché le interazioni generano audience, l’audience genera permanenza sulle piattaforme e la permanenza porta all’esposizione agli annunci pubblicitari.
Nel corso della nostra vita, quando ci imbattiamo in opinioni congeniali alle nostre credenze, entriamo in una sorta di comfort zone psicologica: il mondo va nella direzione giusta o, almeno, pensiamo che la gente “intelligente” come noi lo stia spingendo nella direzione giusta.
Più le nostre credenze sono avvalorate dagli “echi” delle persone a noi vicine più siamo disposti ad attivarci socialmente e politicamente per aumentare questa ridondanza.
La domanda a cui stiamo cercando di rispondere è: dentro le echo chamber possono restare “intrappolati” anche i professionisti della comunicazione, ovvero coloro che – almeno in linea teorica – dovrebbero studiare, analizzare, comprendere e, in ultima istanza, utilizzare questi fenomeni sociali ai fini del successo commerciale di un brand?
Intrappolati nelle echo chamber
Chi guida il marketing di realtà molto importanti, come nel caso di Bud Light ha sicuramente, sopra alla propria scrivania, molteplici ricerche di mercato che dipingono un ritratto preciso dei propri consumatori.
Le decisioni prese dovrebbero essere quindi sempre data-driven: una mole di big data e smart data utilizzati per creare un piano marketing e, quindi, anche una comunicazione coerente ed efficace.
Insomma, nel tavolo del marketing manager non dovrebbe esserci spazio per narrazioni che addolciscano la complessità della realtà là fuori; la fotografia della realtà dovrebbe essere ben chiara a tutti.
Eppure, sembra che le decisioni vengano molte volte prese non grazie all’ausilio dei dati e della conoscenza dei consumatori ma sulla base delle idee e dei desideri personali, che vengono proiettati sul brand.
Il marketing manager, come tutti noi, si circonda sicuramente di persone a lui o lei gradite, persone che lo fanno sentire a proprio agio e che condividono medesime visioni del mondo e che si emozionano (o si indignano) per gli stessi fatti.
L’errore fatale è credere che quella cerchia di amicizie sia la realtà: se il mondo che amo la pensa così anche il resto del mondo la pensa così o dovrebbe pensarla così.
Una enorme ingenuità.
Ancora peggio è la spiegazione didattica: io e i miei amici la pensiamo in maniera corretta, chi non la pensa come noi è uno stupido e si deve adeguare. E chi se ne importa dei consumatori che se ne vanno, di quelli ne possiamo fare anche a meno.
Questo pensiero porta a conseguenze abbastanza prevedibili, come quella di sostituire ai fatti e al pensiero razionale alcune affermazioni retoriche dettate dai trend del momento.
Dopo il flop di Bud Light il CEO di Heineken ha ammesso che per avere successo si deve essere equilibrati e “difendere i propri valori”, senza lasciarsi andare alle tentazioni della polarizzazione.
La soluzione ci sarebbe e passa dal buon senso e dalla razionalità: i confirmation bias dei marketing manager dovrebbero essere i dati e non la propria cerchia di amici e conoscenti. I prodotti e i servizi non dovrebbero essere comunicati a seconda delle proprie sensibilità ma a seconda di quelle del target.
Non tutte le tendenze globali sono adatte a tutti i consumatori.
La scelta di Bud Light poteva essere un successo se a percorrerla fosse stato un altro brand, più in linea con quei valori.
Il mercato è grande e c’è spazio per tutte le idee e per tutti i posizionamenti.
Il brand activism è sano quando è capace di dialogare con le persone non quando crea muro contro muro persino con i propri consumatori. La polarizzazione, che ha esacerbato il clima delle piattaforme, rendendolo spesso tossico, si mitiga con la possibilità del free speech e una maggiore apertura a tutti, come abbiamo scritto in una precedente analisi su queste pagine.
Chi fa marketing veicolando posizioni divisive o ha dalla sua dei dati che dimostrano che il proprio target richiede quell’approccio o deve essere pronto a conseguenze spiacevoli, non solo a livello di immagine ma anche da un punto di vista finanziario.
Ne vale davvero la pena?
Source: http://www.ninjamarketing.it/