Alla sostenibilità si guarda con un’attenzione crescente, complici la maggiore preoccupazione sulla salute (probabilmente aumentata con la pandemia), i problemi climatici evidenziati dalla rovente estate appena trascorsa, e il caro-bollette, che ha buttato sotto gli occhi di tutti la necessità delle energie sostenibili.
I consumatori non si accontentano più del prodotto etichettato “green”, chiedono di più.
Un sondaggio condotto da Google per il mercato italiano a febbraio 2022, ha mostrato che la ricerca della parola “sostenibilità” è aumentata, sottolineando un’attenzione maggiorata circa l’argomento per 1/3 degli intervistati.
Il 31% dei consumatori pensa che, nello shopping, il fattore sostenibilità sia da preferire al design e allo stile.
Gen Z e sostenibilità
Tra gli intervistati compresi nella fascia di età 18-24 anni la percentuale di coloro che ritengono la sostenibilità il primo fattore determinante per l’acquisto sale al 37%.
In particolare, l’83% di loro ritiene giusto l’affermazione di un’economia green, nel 40% dei casi si ritiene che i costi per avere dei prodotti eco-sostenibili dovrebbero essere supportati dalle aziende.
Secondo il sondaggio IPSOS 2022, i giovanissimi inseriscono l’ambiente e la sostenibilità al primo posto tra le 7 azioni prioritarie per il futuro. Secondo i dati di First Insight, 3 zoomer su 4 considerano elemento determinante per la scelta di un marchio il comportamento sostenibile di quest’ultimo.
Non è una caso che alla guida di due tra i movimenti più attivi del momento ci siano dei giovanissimi, “Fridays for the future” di Greta Thunberg e “U-recycles initiative” di Oluwaseyi Moejoh.
L’hashtag #sostenibilità conta circa 12 milioni di post su Instagram, e i video con l’hashtag #thrifttok spopolano su Tik Tok e YouTube.
La necessità di una comunicazione trasparente e certificata
Il 74% degli intervistati del sondaggio Google desidera un’informazione più trasparente, in grado di dipanare i dubbi e di aiutarli a compiere le proprie scelte di acquisto.
Quasi il 50% delle interviste, infatti, mostra che, per i consumatori, la mancanza di una comunicazione chiara è un ostacolo all’acquisto, ancor più che la qualità del prodotto.
La comunicazione si presenta dunque come una leva da sfruttare da parte dei marketer per affermare il comportamento sostenibile dell’azienda. La produzione, spesso, genera nell’opinione pubblica il cosiddetto effetto della “scatola nera”, il fatto di non essere a conoscenza dei processi produttivi realizzati all’interno dell’azienda, porta a credere che essi siano particolarmente inquinanti e dannosi.
L’impegno dell’azienda acquista maggiore credibilità, dunque, se convalidato da certificazioni esterne accreditate. La norma ISO 14020 cita quali sono le categorie di comunicazione che un’azienda potrebbe seguire:
- Etichetta I: segnala l’eventuale migliore performance del prodotto rispetto ai concorrenti
- Etichetta II: auto-dichiarazione dell’azienda stessa circa il proprio comportamento sostenibile
- Etichetta III: si tratta di Dichiarazioni Ambientali di Prodotto (EPD), ossia sintetici documenti che riportano il profilo completo del prodotto (risultati numerici dell’impatto ambientale, riciclaggio, consumo di energia…)
Attenzione alla trappola del Greenwashing
Il neologismo inglese, formato dalle parole green (verde) e washing (imbiancare, mascherare), indica la condizione in cui un’azienda impiega le proprie risorse per comunicare un comportamento sostenibile che non corrisponde ad un reale e concreto impegno nel ridurre l’impatto ambientale.
La Commissione Europea nella “Guida all’applicazione della Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali” definisce la pratica come “appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzate alla creazione di un’immagine verde”.
È un modo per ripulire la propria immagine di facciata in modo semplice, presentandosi proprio come desiderato dai consumatori.
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La differenza fra green communication e greenwashing è sottile e a volte difficile da riconoscere. Le caratteristiche che potrebbero far scattare il campanello di allarme del consumatore sono varie:
- non fornisce informazioni relative a dati e statistiche circa l’impatto ambientale del prodotto o dell’azienda
- enfatizza una singola caratteristica del prodotto, o un unico processo aziendale, considerandola sufficiente per definirsi “green”
- assenza delle certificazioni ISO, ci si basa esclusivamente sull’autocelebrazione, enfatizzando il proprio atteggiamento
- utilizza linguaggi tecnici e complessi, non comprensibili alla maggior parte dei cittadini
- utilizza colori e immagini evocativi dell’aspetto verde.
I consumatori chiedono aiuto ai brand
La ricerca Google ha dimostrato l’82% dei consumatori si è dichiarato sensibile alle problematiche ambientali e d’inquinamento già prima della pandemia, il 78% ritiene però che il ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico debba essere condotta dalle aziende.
Dalle interviste emerge che l’attenzione, attualmente, non solo concentrata sui temi legati alla sostenibilità (su cui i consumatori si ritengono informati), ma anche sulle concrete azioni messe in atto dai brand. Non è un caso che le azioni di ricerca di Google mostrano trend in crescita per espressioni quali moda sostenibile e piantare alberi, proprio a sottolineare che i consumatori non cercano più tanto informazioni sugli argomenti in sè, ma su ciò che realmente si sta facendo.
Sostenibilità e brand: le promesse che si sono trasformate in azioni concrete
I brand non possono ignorare la richiesta di azioni tangibili e facilmente riconoscibili che i consumatori stanno lamentando, soprattutto notando il successo dei marchi che già da qualche tempo hanno promosso azioni specifiche:
SHEBA
Un esempio è la campagna del cibo per gatti Sheba, che permetteva, cliccando sul video YouTube del proprio brand, di contribuire finanziariamente alla protezione delle barriere coralline, grazie all’entrata delle visualizzazioni del social media.
BOTTEGA VENETA
Il noto luxury brand italiano ha cercato di ridurre il tasso di sostituzione dei prodotti al fine di diminuire l’impatto ambientale, creando “Bottega series“, una specifica sezione del sito web in cui è possibile acquistare modelli d’archivio del marchio al prezzo originale.
Ciò garantisce la trasparenza del brand nel mostrarsi impegnato nel riciclo, un’attività a cui i consumatori italiani sembrano essere sensibili. Nel nostro Paese, il riciclo, secondo i dati del sondaggio Google, è aumentato fino al 49% dal 2013 al 2020. Un dato che dovrà arrivare al 100% entro il 2030, anno in cui tutti i packaging europei dovranno attenersi allo standard richiesto.
GRUPPO KERING
Il gruppo di cui fa parte la maison italiana Gucci, ha dato vita, nel 2021, ad una partecipazione del 5% nella piattaforma francese “Vestiarie Collective”, sito rivenditore di abbigliamento e accessori second hand. L’abbigliamento dell’usato è un trend del momento, soprattutto per i capi definiti haute couture, un modo per sensibilizzare alla riduzione dello spreco.
NIKE
Con il progetto Earth Day Pack, ha lanciato una collezione di sneakers realizzate con un materiale innovativo, il Flyeather, formato per il 50% da pelle riciclata, con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale della produzione di pellami.
L’azienda si è impegnata nella riduzione del 50% dei costi energetici nei propri data center, ottenendo il punteggio CSR (Corporate Social Responsability) più alto del Reputation Institute, e devoluto oltre 1 miliardo di dollari in progetti di energia rinnovabili.
Source: http://www.ninjamarketing.it/