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Basta Greenwashing: perché il tuo business deve essere davvero sostenibile

Negli anni 70’, il biologico era appannaggio di pochi visionari, spesso derisi dai “padroni del cibo” – così vengono definite le multinazionali che determinano l’andamento del mercato alimentare globale, influenzando le nostre abitudini.

Oggi, quelle che all’inizio sembravano api solitarie in un alveare di vespe, si sono riunite in sciami, sempre più grandi e rumorosi. La pandemia da COVID-19, infatti, ha accelerato una tendenza già in atto: la “conversione” di un numero crescente di persone al biologico.

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Solo nel 2021, secondo i dati elaborati dall’Osservatorio SANA, il mercato italiano del biologico ha raggiunto un valore di 4,6 miliardi di euro, pari al +5% rispetto all’anno precedente.

E fra le motivazioni che avrebbero spinto il 54% delle famiglie italiane ad acquistare prodotti a certificazione biologica in modo ricorrente – anche più volte alla settimana – ci sarebbero: le garanzie sulla qualità, i benefici per la salute e la sostenibilità ambientale.

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Il biologico, dunque, racchiude in sé un insieme di valori etici che hanno una grande capacità attrattiva sul consumatore finale: molte persone acquistano “bio” anche perché si sentono moralmente appagate.

Consapevoli che l’emozione gioca un ruolo importante nel processo decisionale d’acquisto e attratti dalle allettanti prospettive di guadagno, i “Big” dell’Industria Alimentare hanno escogitato un sistema per favorire le vendite dei propri alimenti convenzionali, senza modificarne l’asset produttivo.

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Colore “verde” e claim allusivi alla sostenibilità: così alcune aziende ingannano i consumatori

Come? Cambiando semplicemente il packaging. Passeggiando tra le corsie del supermercato non è difficile accorgersi che, sugli scaffali, il verde è diventato il colore predominante.

Secondo gli psicologi, che ne studiano gli effetti sulla mente umana, ogni colore provoca un’emozione e il verde rimanda a quella pace e tranquillità che solo la natura riesce a trasmettere.

Involontariamente, quindi, alle tonalità del verde tendiamo ad associare un significato particolarmente eco-friendly. Si tratta, a tutti gli effetti, di una manipolazione emotiva invisibile, spesso rafforzata da slogan vaghi e approssimativi, non supportati da un impegno concreto in materia di sostenibilità.

Frasi come “impatto zero”, “meno CO2 e gli stessi acronimi ECO e BIO, perdono di credibilità nel momento in cui non coinvolgono certificazioni specifiche.

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Greenwashing: comunicazione a scopo di lucro

Un fenomeno sempre più diffuso, che prende il nome di greenwashing, un neologismo indicante l’appropriazione indebita di virtù ambientaliste e salutiste da parte di alcune aziende – perlopiù multinazionali – che, dietro green claims, nascondono il reale impatto delle loro scelte/azioni produttive e commerciali.

Si tratta, quindi e a tutti gli effetti, di una strategia di marketing ingannevole: una truffa ai danni del consumatore, che mina la trasparenza della filiera alimentare – già fortemente compromessa.

Sul web è possibile trovare diversi esempi di aziende che sono state accusate di greenwashing. In particolare, sono tre i casi più sospetti e vicini a noi.

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Antitrust: 3 casi di greenwashing

Coca-Cola

Coca-Cola è uno dei brand più controversi dell’Industria Alimentare e, più volte, è stata al centro di accese polemiche per pratiche commerciali scorrette.

L’ultima accusa, in termini di tempo, è quella avanzata dalla Changing Market Foundation che, in un recente report, avrebbe inserito la Coca-Cola nella “lista nera” delle aziende che fanno greenwashing

Nel sito ufficiale di Coca-Cola Italia, sotto la voce “sostenibilità”, si legge di una nuova collaborazione con The Ocean Cleanup, una fondazione con sede a Rotterdam, nata per ripulire fiumi ed oceani dalla plastica, con un innovativo sistema di raccolta, che sfrutta le correnti marine.

Una partnership che, a prima vista, potrebbe sembrare virtuosa e sulla cui promozione l’Azienda di Atalanta ha speso milioni di dollari. In realtà, le bottiglie sarebbero costituite solo per il 25% da “plastica marina” riciclata, come afferma George Harding-Rolls, Campaign Manager della Changing Market Foundation.

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Una quota irrisoria che, di certo, non è sufficiente a porre rimedio agli ingenti danni ambientali di cui l’Azienda è colpevole. The Coca-Cola Company, infatti, è considerata una delle aziende più inquinanti al mondo in termini di rifiuti di plastica prodotti, come rivela l’inchiesta “Brand Audit 2021” pubblicata dall’organizzazione no-profit Break Free From Plastic.

I sospetti, quindi, che quello di Coca-Cola non sia un impegno concreto verso un futuro più sostenibile sono molteplici e all’orizzonte si fa strada l’ipotesi che si tratti di una strategia comunicativa a mero scopo di lucro, alla quale i media – spesso corrotti – fanno da megafono.

San Benedetto

Non serve necessariamente guardare oltre oceano per imbattersi in aziende che fanno greenwashing. Nel Gennaio del 2010, ad esempio, il Gruppo San Benedetto – leader nella produzione di acqua minerale e altre bevande analcoliche – è stato condannato a pagare una multa di 70.000 euro per aver presentato, nei messaggi pubblicitari, la propria bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente”.

I messaggi di San Benedetto, pubblicati tra il 2008 e il 2009 su diversi giornali nazionali, insistevano sull’eco-sostenibilità delle nuove bottiglie “prodotte con meno plastica, meno energia e più amore per l’ambiente”, e sui contenitori classificati come eco-friendly che avrebbero permesso di “ridurre almeno del 30% la quantità di plastica impiegata e quindi di contenere il consumo di energia”.

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Negli stessi anni, per rafforzare la propria immagine green, la società di Scorzé (VE) arrivò addirittura a stringere un accordo con il Ministero dell’Ambiente – all’epoca presieduto dall’Avv. Alfonso Pecoraro Scanio – assumendo una serie di impegni in accordo con il Protocollo di Kyoto, tanto da essere stata premiata nel progetto Coop for Kyoto, come una delle aziende più virtuose nel risparmio delle emissioni di CO2.

In realtà, come segnalato dall’Antitrust, all’epoca l’effettivo risparmio di energia e anidride carbonica non era stato calcolato: pertanto, risultava difficile quantificare i benefici per l’ambiente.

Amadori

Nel vortice impietoso del greenwashing è caduta anche una delle più celebri aziende agroalimentari d’Italia: Amadori. L’azienda di San Vittore (FC) è stata costretta dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) a modificare la comunicazione relativa ai propri allevamenti di pollame, ritenuta ingannevole.

Sul proprio portale, Amadori pubblicizzava – con particolare enfasi – l’impegno della cooperativa nell’assicurare il benessere animale in ogni fase della filiera, suggerendo che tali condizioni erano riferibili a tutti i polli allevati.

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Invece, tali riguardi, sono riservati esclusivamente a due linee di prodotto premium: Pollo Campese e Pollo 10+. Per altro, anche nel caso dei Polli 10+, non sono mancate le critiche verso un claim promozionale che recitava “maggiore spazio in allevamento rispetto ai limiti di legge: le indagini, infatti, hanno dimostrato come l’azienda si limitasse a garantire la soglia massima di densità, pari a 33Kg/mq.

Tuttavia, dopo le segnalazioni ricevute, Amadori si è impegnata a correggere le informazioni false riportate sul proprio sito, accusando le associazioni dei diritti animali – L’ENPA , in particolare – di aver strumentalizzato la vicenda.

Come difendersi dal rischio di greenwashing

Di casi analoghi, ce ne sono innumerevoli e riferibili a più settori – dall’agroalimentare, alla moda, fino all’elettronica. In Italia, per contestare un green claim – e contribuire alla tutela dei consumatori – è possibile: fare denuncia all’autorità competente (AGCM), instaurare un giudizio civile o segnalare il caso all’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP).

Mentre per non cadere in “trappola” è raccomandabile osservare la corrispondenza tra diciture green e certificazioni riportate in etichetta, andando oltre il semplice colore del packaging.

Il greenwashing resta, ad oggi, una problematica seria e spesso impunita, che gioca a svantaggio di quelle aziende realmente impegnate sul fronte della sostenibilità, per limpide convinzioni etiche e non torbidi interessi economici.

Source: http://www.ninjamarketing.it/

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