Si fa presto a cadere nel tranello teso da alcune parole, troppo inflazionate, abusate, collocate qua e là in modo generalista o improprio.
“Design” è certamente una di queste. Si cerca poi magari di caratterizzarne l’identità perduta di questa parola accostandola a termini ed “etichette” di natura emozionale e/o funzionale, che però di fatto concorrono a indebolirne la valenza.
Eppure, Design è una parola che porta con sé una profondità e un respiro che meritano una riflessione. Nella sua etimologia, design deriva, come ricorda Klaus Krippendorff, dal latino de signare, “dare un significato alle cose”.
Una capacità che appartiene quindi all’uomo, universalmente inteso, ancor prima che alla figura professionale che siamo stati abituati a chiamare designer.
La scala di progressione del valore
Siamo in fondo tutti un po’ designer, perché oltre ad agire in un contesto nel quale siamo in grado di derivare un significato per noi stessi, a volte – e più spesso di quello che pensiamo – siamo in grado di veicolare un significato agli altri.
I designer, quelli di professione, sono in grado di farlo imprimendo tale significato in un medium. Sia esso un prodotto, o sempre più un servizio, magari una esperienza o perfino una trasformazione. Ci stiamo qui riferendo esplicitamente alla scala di progressione del valore (economico) così come è stata proposta, ormai qualche tempo fa ma sempre attuale, da Pine e Gilmore.
De-sign vuol dire proprio essere in grado di dare un significato a un prodotto/servizio/esperienza/trasformazione. Un significato che non può essere colto ed interpretato in modo anacronistico dall’utente ma necessariamente deriva dal contesto nel quale tale medium è inserito.
Si tratta quindi di una relazione complessa che coinvolge destinatario-utente, medium (prodotto, servizio etc.) e designer sullo sfondo di un contesto che può intrecciare più dimensioni, sociali, culturali, tecnologiche e altre.
I principi del de-sign
Dopo una simile premessa, è evidente quanto una riflessione più approfondita sul tema e sui principi del de-sign sia assolutamente inscindibile dal discorso portato avanti in questa serie di articoli sull’impresa ‘significante’.
Il mondo del design italiano è stato il riferimento per molto tempo, nel mondo, di questa capacità di coniugare tutto questo con la cultura del prodotto e del fare manifatturiero.
Il prof. Roberto Verganti del Politecnico di Milano ha fotografato questa impronta identitaria coniando il termine “design driven innovation”, l’innovazione guidata dal design, in contrapposizione a quella spinta più dai bisogni del mercato (market driven) e a quella spinta dalla tecnologia (technology driven).
Anche in questo caso, il rischio culturale è stato quello di confinare questo contributo della ricerca manageriale alla casistica delle imprese più note del design di prodotto (Alessi, Kartell e le altre).
Abbiamo poi compreso che questo orientamento poteva invece essere esteso non solo al prodotto propriamente inteso ma all’intero modello di business fino a traguardare l’identità strategica aziendale.
Perché il significato rappresenta quell’elemento di coerenza grazie al quale poter leggere tutte le diverse componenti (fornitori, clienti, processi etc.) che l’impresa nel tempo struttura e organizza per portare la propria proposta di valore al mercato.
Risulta, inoltre, elemento di innovazione nel momento in cui l’impresa agisce in qualità di “designer” ed è in grado di veicolare sul mercato nuovi significati, attraverso i propri prodotti, servizi, esperienze o trasformazioni.
Ha continuato a farlo magistralmente per anni Apple, anche se negli ultimi tempi sembra aver perso un po’ della spinta del suo significato strategico “Think different”.
Eppure, è riuscita ad agire a livello di esperienza utente, basti pensare ai suoi negozi “tempio” per la community dei propri fan di prodotto, prima azienda del ramo informatica a vincere la sfida del canale retail monomarca.
Ha contribuito di fatto, e non marginalmente, alla “trasformazione digitale” di una gran fetta di utenti, altrimenti non familiari con una tecnologia realmente poco accessibile e fruibile.
Lo sta facendo, a esempio in Italia, Loccioni, piccola-grande realtà B2B che ha ereditato la cultura olivettiana e ha declinato il significato di “sartoria tecnologica” in un modello di sviluppo sostenibile legato al territorio e ai suoi talenti che le consente di dialogare, da Angeli di Rosora nelle Marche, con i grandi gruppi industriali del mondo.
Il re-design applicato alla scala di progressione del valore
Anche in questo caso il de-sign ha riguardato la cura di tutti i livelli della scala di progressione del valore: prodotti a grande contenuto tecnologico ma con approccio “sartoriale”, servizi di trasferimento tecnologico, esperienze “aziendali” per clienti-fornitori e per gli attori, in primis giovani, del territorio, e trasformazioni, contribuendo all’ingresso nel mondo di lavoro di talenti espressione dell’heritage manifatturiero marchigiano e alla nascita di numerose startup e spin-off secondo una logica di ecosistema di business.
Il Design così inteso rappresenta oggi e continuerà a rappresentare per il futuro un potente motore “universale” di innovazione per le imprese.
In questo senso, più che parlare di design universale, vogliamo quindi porre l’accento sull’universalità del design quale mediatore e traduttore culturale tra impresa e mercato-cliente.
Pensiamo a Tesla, e al ruolo che il de-sign della sostenibilità ha avuto nel creare una proposta dirompente a un mercato retto da un settore industriale paradossalmente “conservatore”, specie quando si è trattato di recepire una profonda e intima ridefinizione della sua architettura tecnologica.
Pensiamo a Ryanair, e al suo declinare e veicolare al mercato e ai consumatori il significato di low-cost, ridefinendo alle fondamenta il concetto e livello di servizio e abilitando un nuovo, coerente, modello di business.
Pensiamo al Made in Italy che, quando riesce realmente a far proprio il significato di lifestyle italiano, esprime livelli di qualità e unicità che il mondo intero non può far altro che apprezzare.
Riteniamo quindi che le imprese debbano attrezzarsi e governare al meglio il costrutto teorico e pratico del de-sign come motore di (nuovi) significati. Si tratta di un costruire nel tempo un percorso, partecipato, aperto agli stimoli e ai contributi che possono giungere dall’esterno. Richiede competenze e sensibilità in parte nuove per le imprese. Queste devono infatti diventare interpreti culturali in grado di costruire e articolare nuove visioni e nuove proposte al mercato e da queste derivare coerenti modelli di business, soluzioni tecnologiche e operative.
D’altronde, il rischio che non devono correre è quello di risultare insignificanti. Il De-sign in fondo, nella sua essenza, vuole proprio evitare che ciò accada.
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Articolo realizzato in collaborazione con Gianluca Biotto
Source: http://www.ninjamarketing.it/