È Google il vincitore assoluto “overall” del Diversity Brand Award 2021 insieme alla piattaforma “Virtual Lis” di Rai, prima per la sezione digital. Un riconoscimento importante per il gigante del big tech e per la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo in Italia, che testimonia l’impatto e la forte percezione del reale impegno sul fronte Diversity & Inclusion.
La top 20 dei brand italiani (21 in realtà, per un ex aequo) più inclusivi è stata presentata in modalità streaming durante la quarta edizione del Diversity Brand Summit, “Diversity Factor: born to build trust”, occasione anche per delineare il Diversity Brand Index 2021, progetto di ricerca volto a misurare la capacità delle aziende di sviluppare con efficacia una cultura orientata alla D&I, curato da Diversity e Focus MGMT.
Il ranking delle Top 20 in Italia: “Make it possible”
Ai vertici del ranking italiano rientrano anche Amazon, Carrefour, Coca-Cola, Durex, Esselunga, Freeda, Google, H&M, Ikea, Intesa Sanpaolo, L’Oréal, Leroy Merlin, Mattel, MySecretCase, Netflix, Pantene, Rai, Spotify, Starbucks, TIM, Vodafone.
“Make it possible” è il claim che accompagna l’edizione 2021 del Premio, promosso dalla no profit Diversity, fondata da Francesca Vecchioni, e dalla società di consulenza strategica Focus MGMT, realizzato con il patrocinio della Commissione Europea e del Comune di Milano.
Il diversity factor si contraddistingue, soprattutto, come un vero e potente driver di posizionamento per le aziende, anche in un anno complicato come il 2020 per la pandemia, con un impatto economico significativo: i brand percepiti come non inclusivi registrano un NPS (Net Promoter Score, indicatore del passaparola) negativo pari al -90,9% (con un’ulteriore riduzione di 4,9 punti percentuali rispetto all’anno precedente), a fronte di un +81,2% invece per i brand percepiti come inclusivi. Ciò si ripercuote sul differenziale della crescita dei ricavi: +23% a favore di quei brand che, nonostante la crisi COVID-19, sono riusciti a non interrompere il loro piano di sviluppo e il loro impegno sulla D&I. Dal report, tuttavia, emerge che soltanto 1 azienda su 5 in Italia si impegna realmente sul tema della diversità, sebbene una corporate inclusiva viene percepita come più moderna e conquista un maggior livello di fiducia dei clienti, amplia il proprio mercato e migliora le performance economiche, ma soprattutto attrae e coltiva talenti.
La strategia “diversity oriented” di Google e Rai
Alla base della motivazione del primato di Google, l’aver lavorato in maniera diffusa sulla D&I, in particolare sul gender, sull’orientamento sessuale e affettivo e sulla disabilità. Per aver compreso il ruolo di brand consapevole e responsabile, lavorando su iniziative e attività disruptive, capaci di cambiare e migliorare la vita di ognuno, abbattendo barriere tangibili ed intangibili, oltre all’aver sviluppato una customer experience diversity oriented.
“È con estremo piacere che accolgo questo riconoscimento, che coglie a pieno il concetto di alleanza espresso ogni giorno dalla comunità dei Googler – dichiara Fabio Vaccarono, Vice President Managing Director Italy di Google – Dalle sue origini Google è impegnata a rendere la diversità, l’equità e l’inclusione parte di tutto ciò che facciamo: dal modo in cui costruiamo i nostri prodotti, al modo in cui interagiamo con le persone nel posto di lavoro. Nel realizzare questa visione, abbiamo sempre sentito un elevato livello di responsabilità verso la società e la comunità in cui operiamo: per questo abbiamo fatto nostro il compito di incoraggiare rispetto, equità, uguaglianza nella diversità e inclusione. Nella situazione di emergenza che stiamo attraversando, l’impegno ad aiutare tutte le comunità a proteggere questi valori e tutelare i diritti che hanno acquisito negli anni e, in alcuni casi, acquisirne di nuovi si è fatto ancora più forte”.
A decretare il successo come vincitore digital di Rai è la Virtual Lis, la piattaforma capace di erogare servizi e contenuti nella lingua italiana dei segni mediante un avatar virtuale, affermando un nuovo paradigma di inclusione.
“La vittoria nel Digital Diversity Brand Award è, per il servizio pubblico, motivo di particolare orgoglio. Arriva dopo che la Rai è stata inserita per il terzo anno consecutivo nella lista delle aziende più inclusive, per di più in un periodo drammaticamente segnato dalla pandemia – evidenzia Giovanni Parapini, Direttore Rai per il Sociale – Mentre vige ovunque la regola ferrea del distanziamento fisico, il servizio pubblico sa essere fattore di coesione: contribuisce cioè a rompere l’isolamento di quelle persone che del contatto con gli altri hanno un bisogno vitale. Lo fa stavolta con un progetto che mette insieme un forte valore sociale e una tecnologia d’avanguardia, come è tipico delle realizzazioni del Centro Ricerche, Innovazione tecnologica e Sperimentazione della Rai a Torino. Il Virtual LIS è rivolto alle persone sorde segnanti, con un Avatar che si esprime nella Lingua Italiana dei Segni: una piattaforma che si è ulteriormente arricchita con un’applicazione pensata per la didattica, che permette di imparare la LIS via web e generare nuovi contenuti. È un modo molto concreto attraverso il quale il servizio pubblico ribadisce che nessuno deve sentirsi escluso”.
Il report Diversity Brand Index. Fiducia come key factor
È sul concetto di fiducia che insiste il Diversity Brand Index, che diventa marchio di certificazione per i brand in termini di impegno in D&I.
Il report sottolinea, infatti, una crescita del + 23% nei ricavi per le aziende più inclusive rispetto a quelle non inclusive, anche in un anno condizionato dal Covid e dalla crisi sanitaria, economica e dal cambiamento del profilo di consumatrici e consumatori, meno arrabbiate/i, ma un po’ più individualiste/i rispetto alle tematiche della D&I, assumendo connotazioni “tribali”. Fondamentale, nella costruzione del rapporto di fiducia con il mercato, è la comunicazione efficace e costante verso il proprio target di riferimento.
Il Diversity Brand Index 2021, sviluppato sulla base di una ricerca condotta da gennaio a dicembre 2020 su un campione statisticamente rappresentativo della popolazione italiana, composto da 1.039 cittadine e cittadini, ha visto una riduzione dei brand citati come “maggiormente inclusivi” (388, contro i 482 dell’anno precedente, ossia il -19,5%), a causa soprattutto del distanziamento sociale (e quindi minori relazioni) del lockdown e dell’emergenza epidemiologica.
Il ridimensionamento nel 2020 del numero di aziende inclusive: da 482 a 300, -19%
Due le declinazioni di tale ridimensionamento: fisica e digitale. I brand che tradizionalmente hanno fondato la relazione con il proprio target sulla dimensione fisica, hanno sofferto l’inaccessibilità degli store e degli spazi commerciali. Nell’overload informativo legato alla pandemia, vari brand non hanno avuto la forza (e la volontà) di affermare il tema della D&I, focalizzandosi su contenuti ed attività più tattici e meno strategici.
Hanno perso terreno aziende legate ai consumer services (-12 punti percentuali) ai beni di largo consumo (-10 ). Il retail (-2 p.p.) si conferma comunque il settore più presente (20%) tra le 50 corporate considerate più inclusive. Premiate le aziende capaci di fare comunicazione su altri canali rispetto a quelli fisici (e-commerce, infotainment, social network), in particolare dell’information technology (+8), luxury goods (+10) e healthcare & wellbeing (+8).
Come cambiano i consumatori e le consumatrici
Il report conferma il trend della polarizzazione, con la scomparsa di alcune fasce intermedie in termini di orientamento all’inclusione (es. idealiste/i). Scompare, infatti, il segmento di arrabbiatissime/i e quello di arrabbiate/i passa dal 25,4% dell’anno scorso al 12,4%, con una composizione peculiare: il 63,57% di questo segmento è composto da uomini. Il 40% di giovani fra i 18 e i 35 anni, privati della propria vita sociale ed assistendo ad una focalizzazione mediatica sulla fascia degli “over”, ha sviluppato un atteggiamento non positivo nei confronti di alcune forme di diversità.
Prevalgono Individualismo ed egoismo: emergono “tribali”
Nell’anno del COVID-19 si registra una forte tendenza verso l’egoismo e l’individualismo, con l’arrivo della nuova categoria “tribali” (16,4%), composta da persone in passato distanti dall’inclusione che, durante la pandemia, hanno percepito come alcune forme di diversità fossero in realtà molto vicine: il loro coinvolgimento sui temi della D&I si declina infatti soprattutto all’interno del proprio nucleo familiare. Vi è poi un forte aumento dei consapevoli (15,7% dal 4,2% della precedente edizione), persone attente all’inclusione, ma non direttamente coinvolte.
In un Paese con un buon grado di conoscenza, familiarità e contatto sui temi della diversity ma ancora con una scarsa pratica, nell’interazione e nel coinvolgimento, la maggioranza delle persone (55,5%) è comunque altamente sensibile e attiva sulle tematiche della diversity, con il 34,5% di coinvolte/i e il 21% di impegnate/i.
L’88% di consumatrici e consumatori è maggiormente propenso verso i brand più inclusivi
Le pratiche inclusive sui temi di genere e identità di genere, etnia, orientamento sessuale e affettivo, età, status socio-economico, (dis)abilità e credo religioso (le 7 aree della diversity su cui si è concentrata la ricerca) impattano positivamente sulla reputazione del brand e sulla fiducia riposta nella marca, traducendosi in un indice di passaparola positivo e risultati economici migliori.
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Source: http://www.ninjamarketing.it/