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Customer Experience Design: strumenti concreti e metodi pratici per mappare le esperienze

Quando si parla di customer experience, si cita spesso il design delle esperienze e utilizza (appunto) in abbondanza la parola “design”. Una parola che può sembrare fuorviante e fuori luogo: siamo abituati a pensare al design in termini di progettazione di mobili o altri oggetti molto concreti.

Eccellenze passate e presenti italiane come Alessi, Fiorucci e Kartell hanno per esempio reso approcciabili e disponibili a una vasta fascia di popolazione globale oggetti dal design particolare, rinforzando fenomeni pop, culturale e di costume.

La realtà, però, è diversa: il design è progettazione, e qualsiasi cosa – più e meno tangibile – deve essere progettata. Si progettano incontri, presentazioni, eventi, feste e tanti altri fenomeni, e ciò rende tutti noi un po’ designer. In effetti, secondo David Butler e Linda Tischler, autori di Design to Grow:

Il design consiste nel connettere intenzionalmente elementi al fine di risolvere problemi.

Una progettazione consistente grazie al system thinking

Anche le esperienze di marca dunque possono (o meglio, devono!) essere progettate e disegnate, pur tenendo conto della loro eterogeneità di obiettivi. Elementi da non connettere in maniera disordinata, ma piuttosto integrata con un approccio sistemico chiamato di systems thinking.

Un caso emblematico è quello di Apple: seppur caratterizzato da diversi “pezzi”, alcuni dei quali non proprietari (per esempio, Nike+), il modello di business aziendale riesce a tenere tutti i suoi componenti strettamente collegati e connessi. Prodotti, device, processi, attori si uniscono a network in modo idiosincratico e unico, generando in tal modo un vantaggio competitivo sostenibile e capace di fare la differenza.

Nel design delle esperienze, tale approccio sistemico è garantito da un sistema esperienziale capace di collegare tra loro le due principali tipologie di elementi che compongono qualsiasi sistema, e che dunque esistono anche nel design di una customer experience:

  • Visibili: artefatti digitali, media e canali come un sito web, un’app, un contenuto, un device.
  • Invisibili: di origine profonda, come partnership, processi, cultura organizzativa, significati e valori di marca, etc.

Attraverso la giusta connessione tra elementi visibili e invisibili, il design diventa strategico per un’organizzazione quando aiuta la stessa a crescere – ovvero, se mal definito, se ne limita il successo e la competitività. Sempre più spesso, inoltre, la componente invisibile acquisisce importanza, verso la progettazione di sistemi valoriali complessi. Il design delle esperienze non è da meno, poiché le stesse esperienze non possono essere relegate solo a un semplice gesto creativo-estetico, oppure a una questione tattica con un orientamento di breve termine.

Non è un caso che esistano metodi di CX design capaci di guidare il progettista sui “giusti binari”. A proposito, il prosieguo dell’articolo passerò in rassegna alcune delle metodologie più utili al lavoro quotidiano del Customer Experience Manager.

L’evoluzione del customer journey mapping

Fino a poche decine di anni fa, i customer journey erano disegnati in funzione di modelli come AIDA, acronimo che riassume i quattro passi (attenzione, interesse, desiderio, azione) caratterizzanti il percorso dell’utente verso l’acquisto. Nonostante continui aggiornamenti, oggi tali modelli sono nella maggior parte inefficaci nel guidare i professionisti in modo adeguato.

Il principale limite sta nella linearità del processo, secondo cui l’acquisto da parte del consumatore è determinato da una serie di fasi precedenti, e conclude di fatto la dinamica del rapporto tra lo stesso e l’azienda. Già nel 2009 le ricerche e l’esperienza consulenziale di McKinsey su più di 20.000 utenti in tre continenti e per cinque settori hanno portato a suggerire un nuovo consumer decision journey in 4 fasi:

  1. Il consumatore prende in considerazione un portfolio iniziale di marche, in funzione delle percezioni personali e dell’esposizione ai diversi punti di contatto con il brand.
  2. Procedendo nella valutazione, il consumatore aggiunge o sottrae brand man mano che chiarisce le idee sui propri obiettivi di valore.
  3. Viene finalmente selezionata una marca al momento dell’acquisto.
  4. Le esperienze del consumatore con quanto acquistato arricchiscono il budget di informazioni che andranno a guidare le scelte nel successivo customer journey.

Sono modelli interessanti, che hanno il grande pregio di riconoscere un percorso più complesso – circolare e caratterizzato da interattività e sotto-percorsi – svolto dall’acquirente per arrivare all’atto di acquisto finale. Il problema forse maggiore deriva dal… nome del modello. Come notano Robert Rose e Carla Johnson nel loro libro Experiences, anche se i brand hanno in fin dei conti a cuore soprattutto la transazione che si completa possibilmente in una decisione di acquisto, il cliente – o meglio la persona – ha tutt’altro in mente Il centro del suo interesse sta nell’esperienza di acquisto, non nell’atto in sé. Traduco dai due autori e, nel caso di Robert, amici:

Il customer decision journey può essere circolare, ma se l’interesse risiede ancora nell’aspetto transazionale, si tratta solo di un funnel che si morde la coda. […] È l’esperienza che conta adesso, ed è sempre l’esperienza che genera il punto centrale del processo. Le persone possono essere fan accaniti, influencer di impatto, e advocate anche senza essere mai stati acquirenti – e magari senza diventarlo mai.

Le analisi di Robert Rose e Carla Johnson procedono parallelamente rispetto agli studi di Brian Solis – oggi Chief Innovation Evangelist di Salesforce – insieme agli ex colleghi di Altimeter sull’evoluzione del customer journey influenzato dal paradigma esperienziale, che hanno portato alla definizione del dynamic customer journey.

Un customer journey “social” insomma, che risente fortemente dell’impatto della Generazione Connessa nelle interazioni con l’azienda. A ogni passo – in particolare dopo avere acquistato e testato il prodotto o servizio – l’utente condivide l’esperienza con le proprie cerchie di amici, follower e contatti.

Esperienze che diventano “atomi informativi” cruciali per orientare le decisioni di acquisto e preferenza di tutti i nodi appartenenti al rispettivo network di contatti. Si generano i “circoli di fiducia” tra persone (circle of trust) attraverso le interazioni digitali. Ecco perché al centro del dynamic customer journey risiede l’influence loop: le esperienze di acquisto e consumo si trasformano in information experience e diventano di importanza cruciale, posizionandosi come contenuti digitali (thread di forum, articoli di blog, post social, recensioni, etc.) online e incidono nella valutazione di altri individui.

Quale è la soluzione per allinearsi con successo al nuovo customer journey dinamico? Occorre organizzare le esperienze di contatto con il proprio pubblico attraverso un approccio proattivo, per evitare sorprese in termini di passaparola negativo e contenuti che ne possono mettere in crisi la reputazione del prodotto, del progetto o addirittura dell’azienda. In altre parole, ciò che le persone esperiscono e desiderano condividere al momento della loro interazione con la marca non è casuale, ma rientra in un disegno più complesso e complessivo di architettura esperienziale.

I customer journey non sono però tutti uguali. Possiamo individuare infatti almeno tre principali tipologie:

  • Impulsive journey: percorsi di scelta e acquisto dove il tempo speso a cercare informazioni è molto limitato. Le esperienze pregresse, i consigli di amici e parenti, la possibilità di testare gli stessi prodotti e la modalità con cui gli stessi sono proposti diventano variabili determinanti per accelerare la decisione finale. Tipiche frasi di persone tendenti ad azioni impulsive suonano così: “… adoro i prodotti con un bel packaging. Quando voglio acquistare, non cerco informazioni in rete. Mi basta chiedere agli amici e procedere all’acquisto al reparto cosmetici…
  • Balanced journey: presentano una componente importante (a livello di tempo, sforzo, materiale preso in considerazione, etc.) di ricerca delle informazioni necessarie per decidere e acquistare. Le emozioni positive attivano la volontà della persona, la quale raffina le proprie scelte attraverso valutazioni cognitive più approfondite. Sono vagliate diverse fonti, così come sono attivati meccanismi di webrooming (l’acquisto in negozio di un prodotto studiato e vagliato prima in rete) e showrooming (l’acquisto online di un prodotto verificato in precedenza in negozio). L’intervento di modelli aspirazionali – sia all’interno della cerchia dei propri amici e conoscenti che proveniente dallo star system – e di stimoli pubblicitari / promozionali riesce spesso a “rompere” l’equilibrio del balanced journey, convincendo il potenziale acquirente con meno informazioni e in un tempo più limitato: “mi piace guardare i blogger e gli youtuber. I prodotti che utilizzano sembrano interessanti ma le informazioni consistono solamente in una breve recensione. Utilizzo Google per ulteriori approfondimenti dai blog. A volte utilizzo anche gli store online per le referenze sui colori disponibili e le valutazioni di prodotto. Appena analizzato il campione e se esiste la disponibilità di un negozio nelle vicinanze, ci vado per provarlo da sola. Altrimenti, percepisco un rischio maggiore e prendo più tempo nel valutare se dovrei davvero acquistare il prodotto. Spesso chiedo anche consiglio agli amici….”.
  • Considered journey: presentano una fase di pre-shopping dilatata, dove chi deve acquistare non si percepisce in questa situazione ma piuttosto come una persona che cerca informazioni sul prodotto da una moltitudine di fonti (news, amici, blog, recensioni, etc.), le quali vanno a comporre il proprio database personale. Esso viene utilizzato nel momento in cui si palesa il bisogno o la voglia di acquisto. Ecco la citazione di una condizione realmente vissuta da una shopper: “normalmente, quando ho un momento libero, leggo forum e bachece e guardo video YouTube anche senza volere.

L’experience scorecard, un valido strumento per ponderare le variabili esperienziali

La mappatura dei customer journey può essere raffinata anche attraverso l’experience scorecard: un metodo semplice ma utile per avere un quadro immediato di un’esperienza sia al momento della sua progettazione che in fase di valutazione e ottimizzazione.

L’experience scorecard è fondata su due principali assi: sulle x devono essere elencati i plus che, secondo il progettista, rendono l’esperienza efficace e di successo per chi la vive (SuccEx). Sull’asse delle y sono invece elencate tutte le dimensioni (DimEx, per esempio i diversi touchpoint, i trigger, etc.) che compongono la stessa esperienza. Il risultato è una matrice come quella che segue.

Una variante introduce un peso per ciascuno dei plus inclusi (eventualmente prevedendo una scala numerica, per esempio da 0 a 10) in funzione dell’importanza o meno assegnata a ciascuno dal progettista di CX. Scopo della experience scorecard è quello di raccogliere feedback e suggestioni dai partecipanti all’esperienza – attraverso survey, focus group, analisi netnografiche, etc. – andando a riempire le singole celle della griglia e comprendendo così se le singole dimensioni esperienziali sono state capaci di “coprire” adeguatamente e palesare i plus dell’esperienza.

Mappare le esperienze in quanto storie

Lo sappiamo: all’interno delle organizzazioni possono emergere numerose idee innovative per creare esperienze coinvolgenti. Ma molte vengono scartate o comunque si arenano, per diverse ragioni più e meno note. Tra queste una ha particolare peso: l’assenza di una metodologia per vagliare le idee prima che esse siano implementate. Incertezze su questo piano possono indurre spesso le imprese ad abbandonare le idee sul nascere. Per risolvere questo limite, Rose e Johnson propongono il metodo dello story mapping: un percorso strutturato per creare e mappare le idee, valutandone il potenziale narrativo in modo preciso e ragionato.

Lo story mapping è diviso in tre sezioni, ognuna delle quali è ulteriormente articolata al suo interno, come segue:

  1. Il PERCHÉ – ovvero la mission relativa al contenuto dell’esperienza. Si tratta di definire:
  • perché l’esperienza che l’azienda può offrire ha un valore
  • per chi tale esperienza avrà un valore, e per quali ragioni
  • per quali aspetti tale esperienza è unica e diversa da quelle che offrono i concorrenti.
  1. Il COSA – ovvero gli obiettivi di business. Rispetto ai quali occorre indicare:
  • come si configura il successo dell’iniziativa, e come contribuirà al business
  • quali sono esattamente gli obiettivi di business e quanto ci vorrà per raggiungerli
  • in che modo l’esperienza si integrerà nella strategia di business
  1. La STORY MAP – ovvero lo sviluppo dell’esperienza per fasi nel corso del tempo. Che comporta di focalizzare e chiarire:
  • il percorso narrativo, cioè come gli elementi della storia verrano introdotti via via
  • come si potrà dimostrare il successo dell’iniziativa nel raggiungere i suoi obiettivi di business
  • come si bilanceranno esattamente i suoi aspetti di contenuto
  • come verranno utilizzati i vari canali nel corso del tempo

Lo schema fornisce un buon supporto pragmatico al vaglio delle idee, specie quando durante i processi creativi si è passati attraverso diversi momenti di brainstorming che hanno prodotto molte idee tra le quali non si sa quale scegliere. Una mappa che impone di riflettere su una serie di livelli differenti, tutti pertinenti al modo in cui un’esperienza – e la sua storia – possono essere costruite per rispondere alle esigenze strategiche di business.

All’interno del terzo momento di definizione della story map, la voce relativa al bilanciare gli aspetti di contenuto rimanda ai quattro archetipi del Content Creation Management ritenuti di grande aiuto in relazione all’esigenza di categorizzare il contenuto.

  • Promoter: è il contenuto che descrive i propri prodotti e servizi, evidenziando come essi possono soddisfare bisogni e desideri dei customer, promuovendone il valore e lanciando delle call to action;
  • Preacher: è il contenuto che evangelizza il valore dell’esperienza, inducendo a farne la scoperta, ed elevando awareness e engagement di nuovi segmenti di audience;
  • Professor: è il contenuto che soddisfa gli interessi e le passioni dell’audience, dimostrando competenza e autorevolezza, sottolineando il significato dell’esperienza, e con questo educando il pubblico;
  • Poet: è il contenuto che comunica gli aspetti emozionali dell’esperienza, e mira a fare in modo che l’audience provi dei sentimenti particolari, diversi da quelli consueti, inducendo a cambiare la propria prospettiva.

Questi quattro archetipi corrispondono a quattro modalità in cui l’esperienza può essere vissuta: ognuno può avere una sua ragion d’essere in rapporto a una determinata iniziativa. L’essenziale è essere in grado di calibrarli dando maggior peso all’uno o all’altro nelle varie fasi di sviluppo della Story Map, tenuto conto dei suoi caratteri e scopi specifici.

Come scegliere il giusto metodo?

Non esiste un metodo più o meno corretto per mappare e analizzare le esperienze. Tutto dipende dagli obiettivi del progetto, dal budget, dalle competenze al tavolo e da una miriade di altri fattori.

Un ulteriore elemento che ti suggerisco di esplorare, è l’utilizzo sinergico di più metodi per il tuo customer experience management: potresti ottenere risultati sorprendenti!

Source: http://www.ninjamarketing.it/

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