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Nuovi modelli aziendali nel commercio per superare la crisi

  • Con la seconda ondata pandemica, il dibattito tra salute pubblica e lavoro è più acceso che mai
  • Cosa può fare oggi la tecnologia per le aziende, in particolare per le piccole e medie imprese del commercio
  • Esploriamo le misure che fin da ora possono essere attivate

Quando sentiamo parlare di un nuovo lockdown, il pensiero corre subito a dove eravamo a fine marzo.

Chiusi in casa, spaventati per le centinaia di morti che il TG ci comunicava, inquieti dalle prospettive di crisi: a essere sull’altolà sono anche ovviamente i commercianti e in generale gli imprenditori. Confesercenti, in caso di una nuova serrata generalizzata, stima in oltre 5 miliardi la quota di mancati consumi, con conseguente chiusura di oltre centomila piccole aziende.

Questo è l’aspetto più concreto e forse sensazionalistico della situazione che viviamo.

Andando oltre la situazione contingente, però, ciò che fa riflettere è che vi sia una difficoltà a immaginare una nuova modellizzazione del proprio business in una situazione fluida e mutevole come la presente. Tutte le difficoltà sono comprensibili, ed è scontato che una serie di limitazioni possano portare a tutto il tessuto imprenditoriale dei disagi.

Ma è altresì vero che in un periodo di grandi trasformazioni come questo, dove il coronavirus si palesa come il più urgente ma non l’unico fattore di rischio per il nostro sistema sociale, è necessario interrogarci su come un’impresa possa sostenersi anche andando oltre i propri modelli distributivi, relazionali, commerciali, dato che in questo caso (ma anche negli altri) la minaccia può essere in qualche modo addomesticata. Questo in particolare vale per il commercio, dove le difficoltà a spostarsi risultano essere più penalizzanti.

Il come è pressoché detto: rivedere le proprie modalità di stare sul mercato. Certo: non ci possiamo permettere una serrata generalizzata. Allo stesso tempo, però, la contingentazione degli spostamenti per limitare i contagi va prevista in qualche modo. E come per la scuola si è ipotizzata la DAD, allora forse bisogna cominciare a immaginare anche delle modalità che siano “a distanza” anche per il mondo del commercio e del lavoro.

Non di sola presenza vive il commercio (anche oltre il coronavirus)

Ci sono aziende che hanno saputo andare oltre i propri limiti, a ispirarci.

In principio fu la storia del Caffè Carbonelli, considerato l’esempio di come anche una piccola azienda B2C possa con poche semplici azioni rilanciarsi: una torrefazione “cittadina” nata nel 1981 che nel 2006 viene colpita dalla crisi (violentissima anche per il commercio), e che decide di rinnovare la propria rete vendita basando la propria strategia di vendita sull’eCommerce, lanciando un primo store su eBay. Centralità del cliente e attenzione maniacale verso il feedback dato dal consumatore portano la Caffè Carbonelli a confermarsi oggi come una best practice fra quelle che potremmo definire Social PMI.

Certo, l’eCommerce oggi non può essere (da solo) la soluzione, anche perché nell’arco di 14 anni lo scenario si è tremendamente complicato.

È evidente infatti che oggi passare da un processo di vendita totalmente offline a uno spurio richieda prima di tutto degli investimenti, e la piattaforma di vendita è l’ultimo di questi. D’altronde, com’è noto, vendere online significa posizionarsi online, con tutta una serie di costi accessori che è evidente una struttura magari con scarsa disponibilità di cassa non possa affrontare.

La tecnologia fine a se stessa non può essere un elemento risolutivo, quanto un fattore di complicazione ulteriore.

Se io ho un negozio di scarpe o un ristorante e mi trovo a dover dall’oggi al domani vedere ridotto il mio bacino di utenza da regole che limitano gli spostamenti, attivando un eCommerce senza innestarlo in un ragionamento più ampio avrò soltanto una criticità in più da gestire.

La domanda infatti cui dovrò rispondermi non sarà “Come mettermi online il più in fretta possibile“, ma il “Come mettermi online per accelerare il mio business“: e non sempre la risposta si tradurrà in un riversare il catalogo di prodotti e servizi sul web.

A volte, la soluzione a questo quesito è a monte, e si può ricavare comprendendo a fondo le modalità con cui determinate realtà riescono a eccellere: queste non sono sempre riconducibili solo alla bontà di un servizio o del prodotto, ma alla capacità di relazionarsi al consumatore, la tempistica di erogazione, insomma l’esperienza che si configura nella sua totalità.

C’è poi un altro elemento di cui tener conto.

La mutazione del coronavirus non riguarderà solo il periodo in cui sussisterà il pericolo di ammalarsi di COVID-19. Le trasformazioni di questo periodo saranno probabilmente permanenti per un lungo periodo.
Val la pena citare al proposito la serie di appuntamenti “Italia 2021-Competenze per riavviare il futuro“, organizzato da PwC Italia, che attraverso la discussione di personalità del mondo delle imprese e delle istituzioni ha messo in fila diverse priorità d’azione per l’anno che verrà.

 

Fra le evidenze isolate dal tavolo di lavoro in particolare vanno citati il Reshoring, cioè il fenomeno economico che consiste nel rientro a casa delle aziende che in precedenza avevano delocalizzato all’estero la propria produzione, e lo smart working, che ormai un’azienda su due sta definendo come fattore organizzativo permanente.

I lavoratori di concetto saranno sempre più distribuiti sul territorio, con conseguente rilancio di intere aree

Questa però non è l’unica eredità del lockdown. Prendendo a riferimento il mercato dei prodotti Grocery, secondo la “Global Consumer Insight Survey 2020“, durante i mesi di quarantena generalizzata il 29% del campione ha rivalutato le piccole botteghe e i negozi di quartiere, il 29% ha acquistato maggiormente nei grandi supermercati (per concentrare gli acquisti in un unico store) e il 13% ha sperimentato punti vendita “nuovi” che prima dell’emergenza non vendevano generi alimentari al pubblico.
Il 70% ha aumentato gli acquisti online anche per l’alimentare, ma soprattutto l’85% manterrà le stesse abitudini anche nel cosiddetto “Next Normal”.

Queste percentuali si possono spiegare con una serie di fasi che Anna Zinola nel suo libro “Io compro a casa. Carrelli virtuali e reali nell’Italia del 2020” ha descritto egregiamente.

La prima, denominata “Isteria di accaparramento“, è stata dettata dall’emotività del momento e ha visto i consumatori svuotare letteralmente gli scaffali. La seconda, denominata “Riorganizzazione della strategia di spesa“, ha visto il consumatore medio ripensare al modo in cui acquistava: una spesa fatta con più attenzione e oculatezza, a volte più sostanziosa in termini di quantità. È in questa fase che il consumatore comincia a migrare verso i negozi di quartiere e l’eCommerce, cominciando a privilegiare una selezione più attenta anche al “dove” si acquista.

Attenzione: è un trend, quello del ritorno alla bottega di prossimità, che si è già osservato (e confermato dall’Osservatorio Innovazione Digitale del Retail del Politecnico di Milano).

Infine, la terza fase è denominata della “Normalizzazione del carrello“: diminuiscono i prodotti di sussistenza (farina, uova), aumentano quelli riconducibili della gratificazione personale (il make-up per le donne), si cominciano a variare gli acquisti in nome però di nuovi valori, come il Made in Italy e la sostenibilità. C’è stato anche un ritorno alla grande distribuzione: secondo Nielsen, nel maggio 2020 i grandi supermercati hanno registrato un +6% (ciò non toglie che il modello dei grandi magazzini e dei centri commerciali, dove la GDO trova ampio spazio, stia contraendosi già da prima del lockdown).

I fattori evolutivi per guardare al futuro

Certo, durante la pandemia i consumi dei beni non essenziali sono diminuiti: calzature e abbigliamento -58%, attrezzatura sportiva e outdoor – 40%, prodotti health & beauty -38%.

Ma questi sono dati originati dalla situazione, non dalla predisposizione del consumatore. Ciò che rimane, rispetto alla pandemia, sono i comportamenti acquisiti e le nuove abitudini.

Da un lato, lavoro da remoto incentivato, un ritorno alla dimensione rionale, l’esigenza di rallentare; dall’altra, la scoperta di nuovi modi di acquistare, con al centro anche quella personalizzazione dell’esperienza che anche il digitale non può garantire al 100%.

È questa serie di trasformazioni che ci può indicare la via del futuro, soprattutto se si è una piccola azienda che opera nel B2C, un negozio al dettaglio o un ristorante che cerca di risollevarsi.

Partendo da essi, infatti, possiamo notare che come siano tre i fattori che influenzeranno il “Next Normal”.

Spazio: ogni azienda che si interfaccia con il proprio consumatore usufruendo di un luogo definito (esempio: un negozio) deve estendere parte della propria presenza online, mutando anche le regole che normano il rapporto nello stesso: è il caso del mondo del commercio. È stato così anche per il delivery, se ci pensate: oggi si può consumare un piatto del proprio ristorante preferito comodamente a casa, grazie alle tante app di consegna.

Quando ordiniamo, portiamo il vantaggio competitivo di quel ristorante a casa nostra: in un certo senso, sacrifichiamo parte di ciò che potremo vivere seduti nel locale, per approfittare però in altro luogo dello stesso valore aggiunto (il cibo). Bene: questo può valere per tutti, e non necessariamente per la sola fase di consumo. Il digitale può diventare un buon modo per avvicinarci, letteralmente, ai consumatori, facendo sì che non sia necessario venire sul punto vendita ma che “scelgano” solo i prodotti attraverso quel canale.

Tempo: importante cominciare a concepire la propria offerta commerciale come inserita in un contesto digital, dove il consumatore è sempre attivo. Amazon ha lavorato molto su questo aspetto: io posso ordinare un prodotto e riceverlo a casa entro poche ore.

Oggi nessuna PMI e in generale nessun attore “singolo” che sta nel commercio può combattere contro questo strapotere, però può contrastarlo facendo in modo di esser percepita come sempre presente, e interpellabile, almeno “come” Amazon.

Non è necessario una particolare infrastruttura: bastano dei touchpoint ben gestiti. Una pagina Facebook, ad esempio, può diventare un ottimo sportello per ricevere ordini e rispondere in tempo reale a chi necessita di un’informazione (pensiamo ai librai o in generale ai commercianti di beni non di prima necessità).
In fondo oggi il processo d’acquisto di basa su un’esplorazione che il più delle volte viene svolta a monte, online: è lì che ogni PMI deve riuscire a collocarsi.

Se poi c’è modo di investire si potranno ottenere risultati ancor più importanti: prendiamo un parrucchiere, che della propria prestazione e della relazione personale fa il punto di forza. Certamente non può delocalizzare il proprio servizio ne prescindere da un principio di organizzazione (a maggior ragione oggi, che si lavora solamente su appuntamento). Dotarsi di un’app mobile che si interfacci con il proprio CRM e che serva solo per prendere gli appuntamenti, equivarrebbe a un significativo miglioramento nella gestione della propria agenda (più snella, flessibile), ma anche di un tool utile al cliente, che potrebbe avere a disposizione 24h/24 la possibilità di prenotarsi. In questo il digitale non solo cambia il modo di vivere il negozio (non più interruzioni mentre si taglia i capelli per rispondere al telefono), ma anche riempire quei buchi in agenda che ad esempio ci si ritrova ogni giorno (se il cliente controlla sull’app quando il proprio parrucchiere è libero il giorno successivo, potrà sostituire eventuali appuntamenti saltati). Il plus: avere un touchpoint funzionale che non va riempito continuamente di contenuti. Semmai, che va periodicamente aggiornato alle varie evoluzioni dei sistemi operativi.

Esperienza: infine, la mai non abbastanza citata experience. Siamo nell’epoca dei dati, dove tutto viene tracciato allo scopo di capire chi si ha di fronte. Nel ritorno alla prossimità però non si può dimenticare che molto lo fa la personalizzazione del rapporto: sapere che quel negoziante ti conosce bene, che con lui ti puoi fermare a parlare, che ti consiglierà e sicuramente ti darà ciò di cui hai bisogno perché non ha interesse a fregarti.

Questi aspetti dell’esperienza nessuna piattaforma digitale potrà mai surrogarli: questo perché per quanto attraverso il web si possa tracciare l’utente, lo human touch rimane (ancora) uno degli aspetti più inconfondibili e irrinunciabili.
Per questo, è necessario cominciare a considerare il digitale come una commodity su cui appoggiarsi per favorire il contatto: privilegiare meccaniche di interazione online significa abituare il consumatore a considerare quel negozio o quell’azienda sempre presente. Questo non può però lasciare da parte la necessità di focalizzarsi sui propri punti di forza (empatia, correttezza, intuito) allo scopo di trasferirli in tutta quella che per i grandi brand chiamiamo dimensione di marca.

Uno spazio coerente e sempre vivido, che permette di scegliere al consumatore quando -in situazioni come quella in cui stiamo vivendo- c’è da chiedersi “Come posso comprare responsabile?”. Nel dubbio, l’idea di aiutare un commerciante di cui siamo amici prevarrà sempre.

Spazio, tempo, esperienza. Difficile? Sì, se si parte dall’idea che il digitale sia impossibile da controllare. Ma siamo in un’epoca in cui anche con investimenti tutto sommato sostenibili si possono cominciare a fare grandi cose: non ci resta che provare, per superare tutti insieme la tempesta.

Source: http://www.ninjamarketing.it/

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